Critica

 Profuma, il glicine in via Lavagna. E sa di buono. Chiudi gli occhi e ricordi i giochi di bambini, le passeggiate di ragazzi, le biciclette, l’ora della merenda e le corse alla televisione concessa. Li riapri e l’onda violetta ti accarezza, ti illumina, ti regala un sorriso. 

Magia di strade tante volte percorse, di luoghi che rimangono dentro come immagini segrete che qualcuno – qualche mago, certo – all’improvviso per incanto risveglia. Solo all’artista riesce questo prodigio. Un artista capace di raccontare un colore senza colori, un gioco di luci con il bianco e il nero, un profumo di fiori con l’odore della carta, i suoni e le voci del ricordo con il silenzio. Un artista, meglio ancora se incisore.

Pisa, Via Lavagna è una delle ultime acqueforti di Fabrizio Pizzanelli (2020). L’atmosfera sospesa di silenzi e profumi è data dalla sapiente trama di segni che restituisce, nell’intensità poetica di atmosfere che diresti rembrandtiane, la memoria di un frammento di diario. E la geometria morandiana del muro e del garage dialoga con la struttura tozza e irresistibile di una R4, creando l’equilibrio formale pronto ad accogliere la luce generosa e garbata di quel glicine.

Lo conosci bene, Fabrizio. Lo hai incontrato e nei hai scritto anni fa, nel 1981, da giovane, curiosissima ricercatrice invaghita di linguaggi della visione, chiamata a presentarlo per una personale alla Galleria dei Giorni. Per ritrovarlo nel 2016 al Museo della Grafica in Palazzo Lanfranchi e dedicargli, ora autorevole maestra, un altro petit essai di critica raffinata nel catalogo della mostra delle sue splendide acqueforti.

Bisognerebbe raccontare ai giovani cosa è stata per Pisa alla fine del secondo millennio la Galleria dei Giorni, dove scoprire una contemporaneità di segni inattesi e rivelatori; cosa ha rappresentato Palazzo Lanfranchi, nell’unire entusiasmi creativi e suggerirne di nuovi. Storie che ti hanno vista partecipe e protagonista. E nel trascorrere delle stagioni, rimane la certezza di una continuità e una complicità di biografie e di geografie segnate sulla mappa affettiva e intellettuale che lega luoghi, amicizie, immagini.

Un po’ come il glicine di via Lavagna.

 

Alessandro Tosi

Dal volume “Ceci n’est pas un livre. Parole e immagini per Sandra Lischi”

Edizioni ETS, 2021

"Orientalismi, giardini, padiglioni di peonie"

Barbara Henry, Scuola Superiore di Studi S.Anna

Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”,  Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016

None of us is outside or beyond geography,
none of us is completely free from the struggle over geography
that struggle is complex and interesting because is not only about soldiers and cannons
but also about ideas, about forms, about images and imagining
Edward Said

Nella cartografia antica i luoghi inesplorati (…) erano spesso indicati
con una indefinita locuzione, che solo avvertiva hic sunt leones, qui ci sono i leoni,
a dire tutta la fierezza di quella terra non battuta dal piede umano.
 I confini dello scibile (…) scolorano per questo in un mondo primordiale e incolto,
dove la natura non domata è soverchia rispetto a qualsiasi regola
Andrea Marmori

Incipit del testo in catalogo della mostra “Hic sunt leones”

Studio Gennai, 26 febbraio – 31 marzo 2011, Pisa)

 It is not down in any map; true places never are
Herman Melville, da Moby Dick

Forte come la morte è l’amore
Cantico dei Cantici

 Le acqueforti, le acquetinte, le puntesecche di Fabrizio Pizzanelli sono i frutti maturi di una sperimentazione originale che al contempo conosce e addita ad allievi/e, cultori e cultrici d’arte i sentieri sicuri della grande tradizione grafica nazionale e internazionale, come fa un esploratore, esperto e affidabile, di un territorio in trasformazione. Se questo è vero, ha vieppiù senso per chi scrive onorare i linguaggi disciplinari e tecnici andando oltre l’interpretazione letterale dei loro costrutti; rispetto a Pizzanelli, le incisioni su rame, realizzate con un nitore concettuale impeccabile e inconfondibile, sono molto di più di una squisita realizzazione ‘materiale’ di un modello ‘mentale’ tramite la puntuale messa in esercizio delle tecniche canoniche; piuttosto, esse svelano e indicano mondi ‘altri’, essendo opere in cui regna un paradosso, quello di essere dominate da uno spirito geometrico produttivo di tratti rigorosi e nondimeno di misteriosi anfratti speculari, per quanto normalizzati dalla logica della duplicazione tipica della grafica come arte; queste sfere speculari sono non-luoghi, aree simboliche eteree e sognanti, e pur sempre indirizzate dal nitore dell’intelletto in alvei sicuri, in quelli rappresentati dai nostri mondi abituali, domestici e ‘civilizzati’, dei giardini, dei pergolati, dei viottoli, delle vedute, delle piccole stazioni ferroviarie e di sosta, degli scorci di borghi e contadi tipici della nobilissima tradizione pittorica e artistica toscana. Questi non-luoghi dischiusi dal quotidiano sono allusivi, simili al rumore di sorgenti nascoste; sospendono la capacità di orientamento, sono spaesanti. Un esperimento, questo, di geografia visionaria, in cui il mito della separazione fra osservatore privilegiato (l’artista/fruitore d’arte che dà nome alle cose), e ‘il’ luogo osservato-descritto univocamente, viene a cadere, a favore di una prospettiva cartografica, e criticamente orientalista. Una cartografia, come la si intende qui, è l’immagine in trasformazione di un territorio che è a sua volta in cambiamento, e in cui i redattori della mappa sono calati nel territorio stesso nel momento in cui la disegnano. Essere orientalisti critici significa che la costruzione di ogni alterità, e l’oriente è  quella che da molti secoli è divenuta per noi l’alterità per eccellenza, si riferisce in prima battuta alla coappartenenza indistricabile e vitale fra i due lati, e in seconda battuta alla consapevolezza critica e responsabile che l’alterità/oriente non è mai semplicemente dato, non è mai trovato o incontrato, ma piuttosto è stato fabbricato dall’immaginazione disciplinata dalle scienze occidentali. L’illuminismo di Pizzanelli, essendo consapevole di quanto è stato perpetrato nel passato, e perdura nel presente, non produce affatto la colonizzazione ed espropriazione dei mondi della vita, non annichilisce l’alterità, ovvero il quid indomabile dei molteplici individui e contesti plurali unici, la scintilla dell’individuale/plurale che sfugge al dominio della razionalità strumentale. Mai come in questo caso i confini dei mondi divengono penetrabili, fluidi, morbidi, oltrepassabili e non più ostili; soprattutto si scolorano e cadono le barriere definitorie, quelle che sono state irrigidite per secoli dall’apparato coloniale dei saperi enciclopedici, dalla geografia all’architettura e all’antropologia di epoca coloniale; tale sistema ha fondato, oltre al dominio militare, economico e politico esteso su due terzi del globo, anche il potere linguistico, simbolico ed estetico, il dispositivo egemonico che è stato ancor più pervasivo del primo; l’orientalismo. Tale apparato, appunto, il lato seduttivo ma inesorabile del colonialismo coercitivo, qui non ha voce; non ha vie di accesso nella forma di laccio insidioso che si abbatte come una rete classificatoria sulla miriade di specie variopinte di essere viventi, vegetali, animali, e di culture umane, collocate da noi europei/e occidentali nell’’altrove’ esotico. Piuttosto l’orientalismo diviene erosione di sé dal proprio interno, in modo tale che l’occidente e l’oriente, il domestico e l’esotico, il noi e il loro, non sono più termini reciprocamente escludentesi ma comprensibili e co-originari. Come accade in Palma e glicine, l’opera in cui per chi scrive è forte richiamo allusivo e spaesato, a partire dal ‘qui e ora’ della pianta familiare e primaverile, alle ambientazioni sognanti dell’opera classica per la letteratura di epoca Ming, Il padiglione delle peonie di Tang Xianzu (1550-1616); questa trama, che uno sguardo distratto e stereotipato collocherebbe nell’epoca dell’Inghilterra elisabettiana, inneggia all’adagio per cui l’amore è un tema eterno, non da ultimo nel suo cimento irrisolto con la morte. Forte come la morte è l’amore. La libertà di scelta dell’amato/a e la forza del legame che fa incontrare gli amanti nella morte e perfino oltre non risultano essere proprietà esclusiva di un solo emisfero del globo.

Un paradosso, dunque, l’orientalismo critico che si fa immagine, perché i percorsi sino nitidi e al contempo capaci di evocare nascosti labirinti e luoghi indomabili, protetti da muri ubertosi di fronde morbide e vellutate, fronde che svelano infinite trame di un nero generoso e molteplice, rigoroso e insieme ricco di velature potenzialmente infinite.

Le linee e le immagini che ne derivano, i singoli oggetti d’arte, sono ciò che appaiono senza che resti altro da spiegare, sono un fenomeno originario (J.W. v. Goethe) dal punto di vista dell’esperienza estetica, pur essendo un tipico esempio di opera nell’era della riproducibilità tecnica (W.Benjamin). Possono a buon diritto costituire un tale paradosso; lo sono in quanto proiezioni, prima su lastra e poi su carta, di trame sapienti ideali e archetipe soggiacenti a loro stesse, e rampollano da interconnessioni fra le segnature – i segni e i sigilli nella materia, il rame, l’acido, la carta, che producono effetti visivi – e i significati; le visioni mentali che Pizzanelli vede con l’impiego delle sue facoltà visionarie sono antecedenti, autonome, nonché strettamente determinanti rispetto ai risultati, ma del pari restano consegnate alla propria riproducibilità finita, predisposte a dar vita nel mondo sensibile a risultati uguali a se stessi a partire da un prototipo che l’artista ha decretato come l’unico e il primo. Le copie, lo si sa, sono per definizione duplicazioni ‘autentiche’ e contrassegnate dal nome dell’artefice, che le riconosce come proprie, e al contempo sono ripetizioni di ‘una’ visione del mondo archetipica e pur soggettiva. Nel caso di Fabrizio Pizzanelli questi duplicati non soltanto costituiscono i multipli di una immagine costruita e ‘disegnata’ idealmente allo specchio, ma sono anche le segnature delle cose, le cause che si manifestano senza veli nei fenomeni a cui danno vita. I segni e i sigilli del reale, visibili in filigrana soltanto all’occhio visionario dell’artista, vengono resi accessibili a noi profani dalla visione sinottica, ma chiara e dettagliata, e pertanto lungimirante, che la mente illuminata dello stesso artefice possiede e disvela: la vista simultanea è dei tratti, del disegno, del costrutto, delle proporzioni fra gli elementi chimici, e si innesta fra i tempi e le ‘morsure’ dell’acido sui segni graffiati e incisi con delicatezza sulle lastre di rame. Come nel caso dell’opera chiamata La casa di Sandra che lascia le linee perfette di una panchina e di un muro basso a protezione, e non in antitesi, a una setosa esplosione di palmizi e pini mediterranei. O nell’esemplare unico, stampato con fondino giallo, in cui la verticalità di un nastro/colonna apparentemente netta e nera, ma in realtà ad uno sguardo più attento sgranata e ‘friabile’, delimita e con ciò lascia rampollare ai propri lati fronde di arbusti e piante rigogliose provenienti da latitudini diverse. Questo avviene nella quasi totale, e non casuale, assenza di figure umane, in questa specifica fase, momento in cui Pizzanelli abbandona ed evoca, a partire dal vuoto o dalla mera citazione, il pieno delle biografie e dei ricordi individuali e familiari, che stavano invece a fondamento delle produzioni degli anni Ottanta del secolo passato.

Tale immagine astratta di un ordine perfetto e silente, di una natura antropizzata per sola via poetica, viene proiettata e riprodotta dall’artefice; ma ciò può accadere grazie al senso dell’adeguatezza e al tatto grazie a cui Pizzanelli viene a patti con le striature e gli ispessimenti e gli scarti della materia, in tal modo andando oltre e sublimando l’immediato percettivo e sensoriale, oltre il denso luogo del vissuto materiale che l’artista ha di fronte prima e dopo il processo ideativo. Alchimia e scienza si sono abbracciate, rigore e felicità si sono baciate.

 "Un segno d’affetto"

Alessandro Tosi, Università di Pisa, Direttore Museo della Grafica

Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”,  Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016

 Per l’incisore, il segno è sempre un grande gesto d’affetto. Affonda su sé e sul mondo, intessendo una trama narrativa di connessioni reali o ideali, vissute o sognate, certe o possibili. Nasce dal gesto per diventare scrittura, con un vocabolario – se la lingua scelta è quella, ancor più ricca e difficile, dell’acquaforte – che la lastra e le sue morsure impongono e disciplinano nello spazio del foglio. Può diventare prosa o poesia, ricordo o memoria, sedimentando e strutturando brani di luce e campi di ombre che, nel miracoloso ricomporsi, si diranno sempre paesaggio. E lo sguardo degli altri saprà darne rinnovata lettura, inseguendo e trattenendo le variabili emozionali in un atto di segreta e intima complicità. In un altro gesto d’affetto.

Fabrizio Pizzanelli niente nasconde del mestiere dell’incisore. Artista d’eccezione nel panorama dell’incisione toscana contemporanea, come avrebbero scritto i raffinati conoscitori primonovecenteschi a indicarne da subito originalità di espressione entro significanti coordinate di identità culturale, nelle sue acqueforti riesce a trasmettere il senso della costruzione di un complesso sistema di segni disciplinato in scrittura e l’incanto di una scrittura in grado di originare, per propria forza poetica, ulteriori registri interpretativi. Sono quotidiane rarefazioni di minimi pretesti narrativi sorretti, e dunque espansi, da una mai disattesa “castità grafica” che Carlo Alberto Madrignani individuava come registro primo e portante – e i maestri colgono sempre nel segno.

Presentarne il trentennale svolgimento, in una concezione del tempo comunque di dichiarata sospensione, diventa occasione preziosa per riaffermare i principi fondamentali, e oggi ancor più necessari, dei linguaggi dell’incisione. E insieme occasione per riflettere sul valore, ancor più irrinunciabile, delle condivisioni e delle complicità che una trama di segni può accendere.

 Sandra Lischi, Università di Pisa

Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”, Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016

 Nel 1981 scrissi un breve testo di presentazione per una mostra di disegni di Fabrizio Pizzanelli alla Galleria dei Giorni (uno spazio che, ricordiamolo, a Pisa in quegli anni ha svolto una funzione importante per la conoscenza e la valorizzazione dell’arte contemporanea). Trentacinque anni fa: è d’obbligo il passato remoto.

Ravvisavo in quei lontani paesaggi diafani, dai chiaroscuri e dalle ombre che sembrano virare verso un latteo chiarore, riflessioni sulla traccia fotografica che torna al segno grafico. Si trattava infatti di disegni minuziosi a partire da fotografie realizzate dal nonno pittore, Ferruccio Pizzanelli, a Torre del Lago, fra il 1919 e il 1920.Riprese all’aria aperta, in piena luce, con tagli e inquadrature particolari su cui a distanza di tanti decenni Fabrizio Pizzanelli tornava, ricreandole, lavorando per sottrazione, ma anche in modo analitico. “I disegni – scrivevo allora – sembrano restituire alle immagini una fragilità che è quella del tempo che è realmente passato, una lontananza che rende le figure ombre, fantasmi, tracce. E insieme…sintomi di una ricerca teorica e tecnica presente e attuale, anche se intrecciata con la memoria e la storia”.

A ripensarci oggi, nel guardare le opere della attuale mostra di Palazzo Lanfranchi, mi sembra che l’itinerario di questo artista – che è anche un sapiente percorso fra le varie tecniche, come ben evidenziato negli altri testi di questo catalogo – esplori e ci offra proprio una sorta di vertigine o di compressione temporale. Lì si trattava di ripercorrere a ritroso un tempo della riproducibilità (da quella meccanica a quella pazientemente manuale) rendendo moderne, essenziali e asciutte quelle remote fotografie a loro volta finalizzate alla creazione pittorica; ma in tutta l’opera di Pizzanelli, anche successivamente, è in gioco un dialogo col tempo, e non solo il tempo dei modi di rappresentazione. Qualcosa che ha a che vedere con la distanza, che forse è anche la distanza imposta dalle particolari tecniche artistiche scelte.

Dialogo con epoche passate fatte di palme, platani, glicini, cipressi, talvolta racchiusi in tondi o in ovali; forme senza alcuna retorica o enfasi, che si danno come apparizioni lontane eppure sono segnate dall’oggi. Sono paesaggi asciutti e sobri, in cui rami e fili elettrici sono sullo stesso piano, come i rovi e una vecchia costruzione; e in cui panchine deserte abitano piazze composte, ornate da piante che sembrano appartenere ad altre epoche. Come se qualcosa di antico trapelasse già dalle forme cercate e prescelte e lì, nella rappresentazione, venisse insieme fissato e reso vibrante per noi. Un tratto del Lungarno o un angolo della Cattedrale da Via Santa Maria a Pisa, una piazza di Viareggio o il suo sgombro lungomare; uno scorcio a Marina di Pisa; momenti apparentemente inessenziali, dettagli al margine, rare figure umane in movimenti come sospesi. Il tempo si rapprende e si distende e ci lascia, per come lo sguardo lo inquadra e il segno lo dispone, uno spazio di respiro e di pensiero. C’è qualcosa di scientifico, di poetico e di filosofico nell’arte di Fabrizio Pizzanelli; un dubbio, una cura amorosamente minuziosa; e, anche, un silenzio invitante, necessario.

"Intermezzi visivi, impressioni in divenire"

Alice Tavoni, Università di Pisa

dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”,  Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016

Le acqueforti di Fabrizio Pizzanelli svelano scenari al contempo densi e dilatati, nutriti da una vegetazione talmente presente da occupare, alle volte, la quasi totalità della superficie dell’opera, in un lirismo insieme urbano e bucolico. Luoghi impreziositi da architetture mai abbandonate al degrado e, solo do rado, attraversati da figure che, inafferrabili, subito svaniscono, rivelandosi per pochi istanti. Comparse i cui tratti del viso restano inaccessibili allo sguardo. Bambini, di spalle, a rincorrersi nel territorio lontano, inespugnabile e giocoso del loro universo esclusivo. Un uomo a passeggio in un ipotetico inverno a Marina di Pisa, imprigionato dentro un cappotto così ingombrante da sovrastarne il volto, non definito neppure in quel minuscolo spicchio di spazio, volutamente bianco, dentro il quale sarebbe stato possibile restituirgli un’identità espressa. E – nell’eco dell’indimenticabile Ragazzo seduto in riva al mare tracciato su zinco da Giovanni Fattori – due figure di fronte all’oceano, immobili, distanti, smarrite quasi in quell’immensa vastità.

In ogni paesaggio di Pizzanelli aleggia un riferimento impalpabile e potente all’idea di negazione, il richiamo a un’assenza annunciata che, come nei giochi d’infanzia, conduce l’occhio a riscoprire, dopo l’attimo dello sconcerto, un divertito senso di sollievo nel recupero di ciò che pareva irrimediabilmente perso. E affiora quasi sempre, seppur non rappresentata, la consolazione del lieto fine. Come nel sentimento di sospensione evocato dalla panchina vuota – nell’opera intitolata La casa di Sandra – sulla quale ci si attende che qualcuno, da un momento all’altro, debba necessariamente sedersi. La fantasia di chi guarda è dunque continuamente invitata – tra archi, gazebi, viali, argini, spiagge, radure – al desiderio istintivo di completare il puzzle con un’ultima rassicurante tessera. O a quello, più audace, di cedere al turbamento varcando il confine inquieto dell’inespresso, addentrandosi idealmente oltre la saracinesca chiusa protagonista dell’incisione Grande glicine e garage.

Nel segno grafico di queste tavole si legge, dal punto di vista tecnico una ‘perizia naturale’  - in un ossimoro solo apparente – dalla quale è intuitivo dedurre la profonda competenza di chi, nato e cresciuto in una famiglia di artisti, sembra aver da sempre respirato i profumi di carte, inchiostri, tempere e pastelli.

Pizzanelli consolida così, nel tempo, la propria separata identità poetica, facendo tesoro degli insegnamenti del nonno Ferruccio – importante artista pisano del primo Novecento che seppe conciliare la vivace partecipazione alla vita culturale della città con continue, stimolanti esperienze nei maggiori centri artistici nazionali e internazionali – e dello zio Leonardo, dal quale apprende la tecnica dell’incisione calcografica. Come pure fondante della sua formazione risulta, parallelamente, la lezione grafica rappresentata dalle opere di Giuseppe Bartolini e di Giordano Viotto.

Dal perfetto equilibrio espressivo che caratterizza ciascuna delle acqueforti esposte in mostra, si evince la solida abitudine a non lasciare niente al caso, calibrando senza fretta ogni scelta, in una paziente dialettica tra ideazione compositiva, elaborazione incisoria e procedimento di stampa.

L’artista giunge alla resa ultima e definitiva di ogni suo lavoro dopo un accorto processo di riflessione e di costruzione grafico/spaziale prodotto su lastre esclusivamente in rame, incise con percloruro di ferro e stampate, con straordinario spirito di collaborazione, dall’amico Umberto Peroni nella stamperia “Atelier Antico Torchio” di Reggello, nei pressi di Firenze. Un rapporto, quello tra Pizzanelli e il suo stampatore, consolidato negli anni, una confidenza amicale e professionale che restituisce, sul foglio, quell’altissimo grado di stabilità narrativa che mai tradisce momenti di cedimento. Pure nel tenue gioco del cromatismo – modulato con ponderata oculatezza – attivato dall’inserimento dei fondini colorati che, anziché alterare l’effetto di sospensione evocativa dell’attimo raffigurato, ne potenziano, se vogliamo, la natura intrinsecamente onirica, amplificandone i contenuti e moltiplicandone le implicazioni.

Una dimensione di attesa non risolta pervade questi panorami, colti nell’intervallo incerto di un esito che sta per palesarsi. E così mi piace aspettare, con curiosità, quali nuove quinte potranno schiudersi nell’inventiva fantastica di Fabrizio Pizzanelli, quali altri scenari vorranno manifestarsi.

Nicola Micieli, dalla Cartella “Sant’Anna. Cinque immagini: Cesare Borsacchi, Enzo Cei, Renzo Galardini, Fabrizio Pizzanelli”, stampata per la Associazione Ex Allievi della Scuola Superiore di Studi Sant’Anna

Pisa, 2012

…a Pisa, segnatamente ai suoi giardini segreti lungo la cinta delle mura medievali e, imprevedibili quanto pieni di fascino, persino venato di esotismo, oltre i molti e alti muri perimetrali dei palazzi nel suo cuore urbano, Fabrizio Pizzanelli ha dedicato una parte consistente del suo catalogo di incisore capace di affidare al segno, alla puntualità e insieme alla delicatezza del segno, il senso non straniante ma intimamente poetico di un clima e di un tempo assorti e come sospesi. C’è indubbiamente un rapimento metafisico nella contemplazione, per via analitica ma non insistita o icastica delle tessiture del segno della grande palma e delle siepi di un angolo del giardino di Sant’Anna visitato dal fraseggio discreto delle ombre e della luce

"Pizzanelli: il sogno della realtà"

Riccardo Ferrucci per la mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura

Lisbona, 2006

 Avvicinarsi all’opera incisoria di Fabrizio Pizzanelli permette di gettare lo sguardo su un universo poetico ricco e variegato che, partendo dall’osservazione della realtà, di un particolare (un albero, un giardino, un muro, una siepe) conduce alla rielaborazione lirica e poetica della realtà, alla sua trasfigurazione in chiave onirica.

Pizzanelli è un artista che predilige l’osservazione della realtà e che parte da luoghi vicini, della sua Pisa o della Toscana, per dare vita ad una visione interiore, ad una silenziosa e serena contemplazione del mondo. La sua opera incisoria o i suoi disegni raccontano un mondo circoscritto e delimitato, ma che si apre ad orizzonti infiniti ed a viaggi interiori che diventano scoperte di sentimenti ed emozioni nuove. E’ un lavoro artistico che guarda essenzialmente il paesaggio per ritrovare un sentimento umano, per catturare un sogno ad occhi aperti; Pizzanelli propone una raffinata rielaborazione personale sull’immagine in bilico tra metafisica e oggettualità che ricorda per alcuni elementi formali l’opera di autori come Ferroni, Bartolini, Luporini, Pericoli.

Le acqueforti sono un processo artistico accurato e lento di ricostruzione della realtà, il formarsi di una visione che vive di giochi di luce e ombra, di sottili variazioni cromatiche, di rielaborazione di elementi piccoli che assumono un significato più vasto. Ricordava il signor Palomar, di calviniana memoria, che solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a conoscere quel che c’è sotto, ma la superficie delle cose è inesauribile. Anche Pizzanelli ferma il suo sguardo sulla superficie delle cose, della natura e degli oggetti senza andare in profondità, perché la superficie delle cose è inesauribile e conserva mille segreti: la foglia si dirama in mille venature, il muro rivela innumerevoli ferite e lacerazioni, la luce si riflette in mille modi sulla superficie dell’acqua. E’ come se lo sguardo dell’artista riuscisse a cogliere gli infiniti mutamenti di un paesaggio e le sottili variazioni di uno stato d’animo, di un minuscolo particolare ricco di mille sfaccettature. Con Pizzanelli ci troviamo distanti e lontani dalla frenetica civiltà dei media e della televisione che, nel suo consumo onnivoro, rende tutto neutro ed omologato, annullando differenze di valore e di valenza iconica; nel mondo dell’artista toscano si respira un tempo e un sentimento diverso, il tempo si ferma in una sua dinamica silenziosa ed ogni oggetto riassume la sua dignità, a volte vediamo gli oggetti come per la prima volta, come se fossero apparsi dal nulla, come se ci aggirassimo nel mondo con gli occhi chiusi. La forza di questi lavori è proprio nel trovare lo straordinario nel quotidiano, nell’apparizione meravigliosa di luoghi vicini come se fossero mappe e stazioni di un viaggio immaginario.

Il viaggio nell’arte di Pizzanelli è tutto vissuto sotto il segno della leggerezza, quella indicata da Italo Calvino nelle Lezioni Americane: “La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.

Pizzanelli nella pittura compie un’analoga operazione cercando una sua strada verso la leggerezza, togliendo peso alle strutture formali, riducendo i toni cromatici, cercando una pittura dell’essenzialità. E’ una strada verso la lievità ed il sogno, costruendo un personale viaggio che recupera il senso del tempo e della storia aprendosi ad un’assoluta modernità. La sua arte ha la dimensione evocativa della musica, i tempi ed i ritmi sospesi di un canto ed un suono che nasce e muore dalle cose, continuamente modificando gesti e segni. E’ una dimensione circolare quella che propone l’artista nel suo cammino attraverso cicli di opere che si ripetono, inseguendosi e richiamandosi a distanza di anni con sottili e significative variazioni cromatiche e segniche; quasi ad evocare una dimensione enigmatica dell’arte: tutto si riproduce e si ripete, ma tutto cambia e muta ogni volta.

E’ come se le chiome e le foglie degli alberi si guardassero tra di loro, si inseguissero da un disegno all’altro, formando un mosaico di tessere ad incastro diverse e in teoria infinite. La dimensione dell’infinitamente piccolo che diventa però materia per una visione che moltiplica scene e sezioni, segni e grafie, sguardi e luci e ombre. Tutto in questo universo scenico muta e si rinnova come i granelli di sabbia nel deserto che si muovono in fretta, in ogni momento, ma vanno sempre a ricostruire un’immagine finale similare. La realtà è infinita e grande, ma Pizzanelli non si stanca di guardare e disegnare il particolare più piccolo, minuto, cercando di catturare frammenti di verità e sentimenti minimali. E’ un gioco di sottrazione, di leggerezza, di lievità quello portato avanti in questi anni da Pizzanelli che non si stanca di disegnare con le sue matite sulla carta o a incidere i suoi segni sulla lastra di rame per cercare di raccontare un altro aspetto del suo paesaggio interiore, del suo percorso provvisorio sulla terra, della sua piccola visione infinita.

La ricerca e il rigore del lavoro di Pizzanelli, come suggerisce Nicola Micieli, riescono a fare del paesaggio un luogo poetico rivelatorio di un animo aperto su un mondo ancora proponibile come specchio dell’anima. Ancora una volta con Pizzanelli l’arte diventa poesia, non limitandosi a riprodurre la realtà, ma reinventando la realtà in modo onirico e sognante, trasformando la visione di un semplice albero in una meravigliosa mappa dei desideri e dei sogni, in luogo indefinito in bilico tra luce ed ombra, tra bianco e nero.

 

 Giovanni Biagioni, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Lisbona 2006

…L’opera grafica di Fabrizio Pizzanelli gode di ben antiche e prestigiose radici. L’artista pisano, pur continuando una tradizione metafisico-oggettistica di artisti italiani contemporanei (Bartolini, Ferroni, Tonelli, ecc.) …svolge ovviamente una propria tematica artistica, cui fa da supporto una tecnica altamente depurata, personalissima e raffinata. La sua poetica si svolge attraverso delicati squarci paesaggistici, offerti con grande lievità di segno (quasi ragnatele di segni minuti), con suggestivi e lievissimi giochi di ombre e luci, dove la natura (alberi, siepi, fiumi, ecc.) si unisce ad opere dell’uomo (muri e costruzioni) in quella perfetta armonia di cui il paesaggio toscano è così stupendamente emblematico. La vera poesia, per me, che son un semplice fruitore d’arte, sta nella grande serenità contemplativa ed emozionale che le opere di Pizzanelli trasmettono, così lontana dalla non esaltante realtà che circonda questa nostra vita di uomini del secondo millennio.

Ecco, è proprio a un bagno di serenità che invitiamo, con questa mostra, il pubblico dell’Istituto Italiano di Cultura, non senza aver ringraziato per la sempre preziosa collaborazione il Festival Sete Sois Sete Luas e i suoi grandi animatori Marco Abbondanza e Renzo Barsotti.

“Mediterranei Quotidiani Paesaggi”

Pier Francesco Listri per la mostra presso il Palazzo Pretorio

A cura del Comune di Certaldo, agosto 1999

 Oltre al visibilio multicolore dei nostri occhi, poveri e affannati registratori della civiltà dell’immagine, tocca alla mente riassumere e ordinare – proporre all’immaginazione e serbare alla memoria – la cifra suprema del reale, il senso più certo delle cose, rivivendole in uno scarno e ultimativo, astratto bianco e nero.

Da sempre ogni maestro di acquaforte – fratello maggiore o minore del pittore – conosce o intuisce questo segreto, tanto più in un’epoca come l’attuale che assegna al visibile tanto prepotente dominio sugli altri sensi. Provetto fra pochi, Fabrizio Pizzanelli, incisore pisano, giovane di età ma non di ben apprezzata esperienza, testimonia con rara eleganza dell’intelligenza questa condizione espressiva che personalmente arricchisce di un prezioso ossimoro: cogliere con fedeltà il particolare, scheggia o frammento di visione e subito trasferirlo nella sfera archetipica e memoriale. Dunque per le acqueforti di Pizzanelli – fedeli all’hic et nunc della visione e insieme vittoriosamente metatemporali -davvero si impone il disperato e modernissimo impegno che Klee riassume nelle parole: “ruolo dell’arte non è riprodurre il visibile. Ma quello di renderlo visibile”.

La storia di Pizzanelli ha scarne tappe esteriori, perché la sua coerenza puntigliosa e tranquilla gli ha evitato dispersive innovazioni prediligendo di approfondire le subito elette sue essenze, visive e non solo. Tutta la sua opera – cui certo non resta estranea la formazione universitaria di filosofo, giacché pensiero e acquaforte combinano e puntano alle essenze – mi pare dunque consista in un’etica espressiva che punta a dare senso alle forme. Osservando le sue acqueforti se ne coglie subito l’immacolata asciuttezza, immagini indenni dai lenocini del patetico come dai trabocchetti dell’ideologia.

Certo, ogni artista muove da influenze nella tradizione e da suggestioni coeve. Non è difficile per Pizzanelli richiamarsi a quella pittura della luce che avvia e traversa l’arte moderna – Vermeer e gli altri nordici – e che, nella storia delle forme si arricchisce, da noi, di una diversa luce mediterranea.

Quanto ai coevi, il territorio è segnato da diversi poli, tra loro disaffini: la monastica, altissima penetrazione etico-formale di Morandi e l’opposta, inquieta e vivacissima narratività, sorretta da prestigiosa magia tecnica, di Viviani (Pisa docet). Né sia esente, il severo discorso espressivo di Pizzanelli, da quella armonica compiutezza compositiva del supremo Piero, condanna e privilegio di ogni occhio toscano.

Tuttavia non c’è acquaforte di Pizzanelli che non tenda e induca anche a un’altissima emozione. Emozione dello sguardo (ma non solo percettiva) che tende al cuore delle cose attraverso la datità del reale.

Dove, dunque, si posa lo sguardo di questo raro incisore? Evitando un inventario di soggetti (la letteratura mima ma non spiega i segreti della visione), vi sono scelte precipue di questo artista, elette a cifre ed emblemi sempre variati con costante fedeltà. Direi che si appuntano su quelle “terre desolate” di eliottiana memoria che sono, al tirar delle somme, le oasi festose e umili della brulicante civiltà contemporanea. Periferie spirituali, se vogliamo segnate fra terra e mare, fra segno dell’uomo e sua assenza. Mediterraneo, Pizzanelli iscrive la sua geografia tematica (che poi coincide con la sintassi espressiva), verso quella natura aspra e marina, selvaggia e memoriale che Montale ci ha insegnato a riconoscere nei suoi aspri e simbolici e memoriali paesaggi poetici liguri.

Ma in Pizzanelli per così dire addolciti dal raziocinio, da una più antica, etrusca grammatica ambientale tirrenica.

Se osservate una sua acquaforte, molte sue acqueforti notate che la datità rappresentata va sempre verso un oltre che è spazialità concreta (il mare, perlopiù) e insieme idea di assoluta libertà: ancora, dunque, quel mare montaliano, “via di fuga/labile come fra i sommossi campi/del mare, spuma o ruga”

Quando la scena è più circoscritta, i segni di Pizzanelli si imbattono (per scelta), e scendono a descrivere/districare, fitti e scuri e densi verdi viluppi vegetali di cui ogni linea è insieme segno e inventario: ancora una volta particolare e assoluto restano ossimoro e crocicchio di ogni icona pizzanelliana.

E se il mare, scenario che di rado appare e sempre lontano filo d’orizzonte, s’impone dappertutto invisibile e gaudioso preludio di luce che tutto investe, l’occhio sceglie e si affisa però su fotogrammi (il cinema è decisiva ginnastica semantica per tutto il visibile novecentesco) che mai assomigliano a “bozzetti” ma sempre incarnano lucidi “frammenti” (frammento non come realtà monca, ma come particolare separato che riassume l’insieme).

Questa percettività che in Pizzanelli subito diventa memoria (più del futuro che del passato) sceglie topografie dove il naturale serba il segno dell’uomo, dov’è natura costruita. E’ una mappa di paesaggi minimali: dintorni di stazioni, cancellate su giardini segreti, cieli segnati da pali della luce, vie bianche e polverose nel verde, assolati teoremi di geometrie urbane e suburbane, approdi di vegetazioni che anticipano le marine.

Qui il bianco e nero (le due note a disposizione dell’avaro maestro dell’acquaforte) emettono limpidi squilli, raccontano per contrasto o in armonia, scavano e carezzano le cose rendendole come visibili per la prima volta, in un magico silenzio senza tempo (pronuba è tuttavia spesso la luce meridiana).

E sebbene la storia dell’acquaforte sia ben lunga, Pizzanelli con le sue, bellissime, ci mostra come questo povero e unico binomio, questo bianco e nero, suonato poi per mille tonalità, sfumature e pedali (che ha nel cinema e nella fotografia un anonimo quanto potente alleato bicromatico) sia forse il più selettivamente adatto a restituirci quel senso di spoliazione metropolitana, di assenza gremita di presenza, di allusiva foresta di simboli di cui l’universo industriale ed i suoi territori sono portatori. A loro modo appunto, “terre desolate” di eliottiana memoria.

Osservate a lungo le acqueforti di Pizzanelli. Quasi per un incoerente miracolo pare che la luce (di un sole che non si vede) rifulga piuttosto nei neri sfondati delle sue incantevoli lastre. Mentre nelle chiarità che, per contrasto, si disegnano, si addensa, invece, una astratta malinconia occidua. Così la luce della costa tirrenica, come le palme (insistiti emblemi di questo artista), compongono una coralità a cui la presenza dell’uomo non è fisicamente necessaria (ma si percepisce per una struggente assenza di figure) e solo talvolta compare, ma sempre di spalle. Come pure l’umanissimo mondo di queste acqueforti sceglie per scenari quasi sempre gli esterni en plain air, quasi che i troppi segni che gremiscono ogni interno domestico, fossero insopportabili all’artista con la loro datità pletorica.

All’opposto di ogni informativa narratività, le acqueforti di Pizzanelli, senza ipostatizzare o congelare il reale, ne svelano l’essenza per via di epifanie che hanno per meta, non per strumento, la bellezza senza aggettivi.

Nicola Miceli “Incisione pisana del Novecento - eventi e protagonisti “

Pisa, “Limonaia” di Palazzo Ruschi,  Provincia di Pisa e Comune di Pisa

Catalogo Bandecchi e Vivaldi editore, 1998

 Ci sono artisti che, come Fabrizio Pizzanelli, non amano il divagare eccitato della fantasia. Ai percorsi divergenti costellati di sirene, essi preferiscono la perlustrazione ravvicinata, la convergenza su un ristretto campo visivo.

 Costoro amano i territori poco frequentati. Sono cultori di microuniversi riservati, che direi quasi iniziatici, il cui accesso è consentito solo a chi possegga la capacità di concentrare lo sguardo su un frammento – per altri insignificante – dell’illimitato mondo fenomenico, e di sondare in profondità piuttosto che in estensione, da maieuta operando il disvelamento dell’immagine sepolta.

Meglio se lo sguardo investe un oggetto, una figura, un aspetto familiare della realtà. La consuetudine con la “cosa” consente, difatti, di evitare le lusinghe o le distrazioni delle apparenze sensibili, e di concentrarsi sulla sua tessitura visiva, per le cui maglie l’occhio può calarsi in profondità e recuperare la forma interiorizzata, la figura essenziale della propria dolce ossessione.

 Un’indagine mirata al superamento del diaframma ottico implica un processo formatore meticoloso e ispirato alla durata, da “école du regard” alla Robbe-Grillet. L’immagine che scaturisce da una così puntuale e partecipata ricognizione non può essere che rivelatrice, giocata sulla qualità e sull’ambiguità poetica della forma. Nella quale rifluisce la dimensione sommersa, l’identità segreta e inusuale di una realtà che appare “strana” solo per la nostra disabitudine al vedere consapevole – come dire in complicità di sensi e di sovrasensi – il mondo che ci circonda, presi come siamo da una sorta di schizofrenia percettiva connessa al consumo onnivoro neanche più, ormai, di cose concrete, ma dei loro simulacri o simboli iconici, che i media ci inviano con flusso continuo, nel loro folle carosello informativo.

 L’inclinazione dello sguardo allo svelamento non sfocia necessariamente nella distillazione metafisica dell’immagine o, all’opposto, nel suo congelamento per acribia analitica della forma. Tra le rivelazione metafisica dell’assenza o del non essere e l’eliottiana individuazione di un simulacro che, per la sua finitezza oggettuale, sostituisce  crudelmente l’essere, vi è una gradualità di definizione figurale delle cose, e dirò meglio della loro orditura luminosa in quanto forme della visualità pittorica o grafica, che corrisponde agli atteggiamenti diversi delle singole personalità rispetto alla vita e alle sue istanze, prima che al mezzo espressivo e alla destinazione poetica del linguaggio.

 C’è in Italia – ma non mancano riscontri stranieri – un cospicuo versante della ricerca d’immagine che si mantiene in quest’area liminare tra metafisica e oggettualità. Vi appartengono artisti di diverse generazioni, da Giuseppe Bartolini a Gianfranco Ferroni a Sandro Luporini a Giorgio Tonelli, per citare solo alcuni tra quelli che risultano più vicini alla sensibilità e alla poetica di Fabrizio Pizzanelli. l’incisore pisano che in questa congerie si è ormai inserito con una propria voce precisamente delineata.

 Ognuno di questi autori si muove secondo precipue modalità stilistiche, ma è innegabile la loro appartenenza a una comune cultura d’immagine. E’ un’area nella quale la decantazione formale del dato visivo corrisponde a una disciplina interiore, finalizzata a rendere percepibile non la realtà, ma il sentimento del tempo e dell’ora che promana nel silenzioso comporsi della materia pittorica rarefatta e intrisa d’una luce mentale, in uno spazio depurato d’ogni fenomenicità, reso luogo evocativo, a suo modo magico nel senso che per incanto potrebbe farsi teatro di apparizioni impreviste.

 Altrove ho indugiato a descrivere la qualità dell’immagine e il linguaggio grafico di Pizzanelli, che è autore riservato e tutt’altro che prolifico, riducendosi a poche decine i titoli ascrivibili al suo catalogo di incisore, ma certo d’un respiro adeguato, per dominio del mezzo e per individuazione del mondo poetico, alle esperienze maggiori dell’acquaforte italiana contemporanea.

Pizzanelli ama le luci meridiane, ed è incisore di esterni. Il suo sguardo indugia volentieri sul paesaggio dimesso della periferia urbana, sugli slarghi delle strade che accolgono i giochi dei ragazzi o lungo i marciapiedi della ferrovia, cui fanno da quinta le siepi di bosso. Tra gli altri elementi diffusi del “paesaggio” antropico, egli predilige i muri assolati che riecheggiano il “meriggiare pallido e assorto” di Montale, anche se non delimitano gli orti pensili del dirupato territorio ligure, e magari custodiscono giardini privati, della cui vegetazione esuberante tracimano le chiome degli alti fusti.

Nell’album delle sue vedute incontriamo i giardini della comune topografia residenziale, poniamo del lungomare versiliese la cui vegetazione lascia indovinare, dai riverberi della luce, l’orizzonte basso del mare retrostante; ma la nostra attenzione è guidata anche nel cuore antico di una Pisa che l’iconografia di Pizzanelli presenta proprio come una città di giardini, di cui il maggiore, quello dei Semplici, è il vetusto orto botanico che accoglie erbe e piante rare ed esotiche. Il linguaggio grafico è il più idoneo a restituire i silenzi abbacinati dell’ora meridiana. La tessitura del segno è variegata su una gamma che va dall’ombra profonda alla chiazzatura dei grigi dati dalla luce filtrata, fino al bianco assoluto che proietta lo sguardo verso l’infinitudine dello spazio.

 Pizzanelli assegna ai bianchi una importate funzione costruttiva dell’immagine. Il bianco è la risoluzione o la liberazione nello spazio del formicolio, della fitta granitura o maculazione segnica che variega le superfici, figurando la sequenza dei piani prospettici nel paesaggio e negli edifici o l’esuberanza dei valori morfologici di un albero maestoso che domina la campagna. Sovente l’idea liberatoria è suggerita persino dal taglio dell’immagine, inquadrata da sott’insù a cogliere tra cielo e terra l’evento improvviso, la rivelazione della quintessenza di vita insita nel brulichio di una fronda. Altrove la scelta del prospetto frontale utilizza le campiture assolute del bianco come tasselli di vetrata, ossia inducendo l’idea della trasparenza, un complemento intuitivo di quell’insinuarsi dello sguardo entro le zone d’ombra, attraverso le minutissime chiazze di luce filtrante che sempre animano le grandi superfici incise e fanno vibrare l’immagine.

 Siamo in presenza di un artista contemplativo, in definitiva. L’apparenza oggettiva dell’immagine non ingannerà chi sa cogliere le vibrazioni minute, e graficamente raffinate, che alla partitura imprime il gioco così sottile della luce e dell’ombra, dati dalla presenza o dall’assenza del segno e della figura, come dire che entrambe – la luce e l’ombra – sono elementi visualizzatori, e dunque morfemi di un linguaggio grafico che vuol rappresentare, nella levità puntuale dell’immagine, un paesaggio di appartenenza interiore. A tale paesaggio convengono la sensibilità evocativa della materia e, a un tempo, il rigore formale della partitura, per farne luogo poetico rivelatorio di un animo aperto su un mondo ancora proponibile come specchio dell’animo.

Nicola Micieli  “A quattro voci: Gianluca Murasecchi, Fabrizio Pizzanelli, Mauro Reggio, Gennaro Strazzullo”

Mostra presso la Galleria “Nuvola Nera”, Santa Croce sull’Arno, ottobre 1997

 …Pizzanelli ama la visione composta nell’unità dello spazio, che coincide sempre con la rappresentazione di un contesto antropico, e del segno tenuto a una sua ineccepibile misura grafica per variazione dei reticoli e frequenza. L’intendimento centrale di queste immagini è l’individuazione di un clima, di una qualità della luce e dell’ombra nella qualificazione psicologica, prima che nella definizione ottica dell’immagine. Ai fini evocativi di atmosfere ferme o animate d’una lieve vibrazione, al limite della sospensione metafisica dello sguardo, contano i bianchi non meno dei neri, e dunque la sottile alchimia della luce.

Nicola Micieli per la mostra presso la “Galleria Simone Vallerini”

Pisa, ottobre 1994

Ci sono artisti che, come Fabrizio Pizzanelli, non amano il divagare eccitato della fantasia. Ai percorsi divergenti costellati di sirene, essi preferiscono la perlustrazione ravvicinata, la convergenza su un ristretto campo visivo.

Costoro amano i territori poco frequentati. Sono cultori di microuniversi riservati, che direi quasi iniziatici, il cui accesso è consentito solo a chi possegga la capacità di concentrare lo sguardo su un frammento – per altri insignificante – dell’illimitato mondo fenomenico, e di sondare in profondità piuttosto che in estensione, da maieuta operando il disvelamento dell’immagine sepolta.

Meglio se lo sguardo investe un oggetto, una figura, un aspetto familiare della realtà. La consuetudine con la “cosa” consente, difatti, di evitare le lusinghe o le distrazioni delle apparenze sensibili, e di concentrarsi sulla sua tessitura visiva, per le cui maglie l’occhio può calarsi in profondità e recuperare la forma interiorizzata, la figura essenziale della propria dolce ossessione.

Un’indagine mirata al superamento del diaframma ottico implica un processo formatore meticoloso e ispirato alla durata, da “école du regard” alla Robbe-Grillet. L’immagine che scaturisce da una così puntuale e partecipata ricognizione non può essere che rivelatrice, giocata sulla qualità e sull’ambiguità poetica della forma. Nella quale rifluisce la dimensione sommersa, l’identità segreta e inusuale di una realtà che appare “strana” solo per la nostra disabitudine al vedere consapevole – come dire in complicità di sensi e di sovrasensi – il mondo che ci circonda, presi come siamo da una sorta di schizofrenia percettiva connessa al consumo onnivoro neanche più, ormai, di cose concrete, ma dei loro simulacri o simboli iconici, che i media ci inviano con flusso continuo, nel loro folle carosello informativo.

L’inclinazione dello sguardo allo svelamento non sfocia necessariamente nella distillazione metafisica dell’immagine o, all’opposto, nel suo congelamento per acribia analitica della forma. Tra le rivelazione metafisica dell’assenza o del non essere e l’eliottiana individuazione di un simulacro che, per la sua finitezza oggettuale, sostituisce crudelmente l’essere, vi è una gradualità di definizione figurale delle cose, e dirò meglio della loro orditura luminosa in quanto forme della visualità pittorica o grafica, che corrisponde agli atteggiamenti diversi delle singole personalità rispetto alla vita e alle sue istanze, prima che al mezzo espressivo e alla destinazione poetica del linguaggio.

C’è in Italia – ma non mancano riscontri stranieri – un cospicuo versante della ricerca d’immagine che si mantiene in quest’area liminare tra metafisica e oggettualità. Vi appartengono artisti di diverse generazioni, da Giuseppe Bartolini a Gianfranco Ferroni a Sandro Luporini a Giorgio Tonelli, per citare solo alcuni tra quelli che risultano più vicini alla sensibilità e alla poetica di Fabrizio Pizzanelli, l’incisore pisano che in questa congerie si è ormai inserito con una propria voce precisamente delineata.

Ognuno di questi autori si muove secondo precipue modalità stilistiche, ma è innegabile la loro appartenenza a una comune cultura d’immagine. E’ un’area nella quale la decantazione formale del dato visivo corrisponde a una disciplina interiore, finalizzata a rendere percepibile non la realtà, ma il sentimento del tempo e dell’ora che promana nel silenzioso comporsi della materia pittorica rarefatta e intrisa d’una luce mentale, in uno spazio depurato d’ogni fenomenicità, reso luogo evocativo, a suo modo magico nel senso che per incanto potrebbe farsi teatro di apparizioni impreviste.

Altrove ho indugiato a descrivere la qualità dell’immagine e il linguaggio grafico di Pizzanelli, che è autore riservato e tutt’altro che prolifico, riducendosi a poche decine i titoli ascrivibili al suo catalogo di incisore, ma certo d’un respiro adeguato, per dominio del mezzo e per individuazione del mondo poetico, alle esperienze maggiori dell’acquaforte italiana contemporanea.

Pizzanelli ama le luci meridiane, ed è incisore di esterni. Il suo sguardo indugia volentieri sul paesaggio dimesso della periferia urbana, sugli slarghi delle strade che accolgono i giochi dei ragazzi o lungo i marciapiedi della ferrovia, cui fanno da quinta le siepi di bosso. Tra gli altri elementi diffusi del “paesaggio” antropico, egli predilige i muri assolati che riecheggiano il “meriggiare pallido e assorto” di Montale, anche se non delimitano gli orti pensili del dirupato territorio ligure, e magari custodiscono giardini privati, della cui vegetazione esuberante tracimano le chiome degli altifusti.

Nell’album delle sue vedute incontriamo i giardini della comune topografia residenziale, poniamo del lungomare versiliese la cui vegetazione lascia indovinare, dai riverberi della luce, l’orizzonte basso del mare retrostante; ma la nostra attenzione è guidata anche nel cuore antico di una Pisa che l’iconografia di Pizzanelli presenta proprio come una città di giardini, di cui il maggiore, quello dei Semplici, è il vetusto orto botanico che accoglie erbe e piante rare ed esotiche. Il linguaggio grafico è il più idoneo a restituire i silenzi abbacinati dell’ora meridiana. La tessitura del segno è variegata su una gamma che va dall’ombra profonda alla chiazzatura dei grigi dati dalla luce filtrata, fino al bianco assoluto che proietta lo sguardo verso l’infinitudine dello spazio.

Pizzanelli assegna ai bianchi una importate funzione costruttiva dell’immagine. Il bianco è la risoluzione o la liberazione nello spazio del formicolio, della fitta granitura o maculazione segnica che variega le superfici, figurando la sequenza dei piani prospettici nel paesaggio e negli edifici o l’esuberanza dei valori morfologici di un albero maestoso che domina la campagna. Sovente l’idea liberatoria è suggerita persino dal taglio dell’immagine, inquadrata da sott’insù a cogliere tra cielo e terra l’evento improvviso, la rivelazione della quintessenza di vita insita nel brulichio di una fronda. Altrove la scelta del prospetto frontale utilizza le campiture assolute del bianco come tasselli di vetrata, ossia inducendo l’idea della trasparenza, un complemento intuitivo di quell’insinuarsi dello sguardo entro le zone d’ombra, attraverso le minutissime chiazze di luce filtrante che sempre animano le grandi superfici incise e fanno vibrare l’immagine.

Siamo in presenza di un artista contemplativo, in definitiva. L’apparenza oggettiva dell’immagine non ingannerà chi sa cogliere le vibrazioni minute, e graficamente raffinate, che alla partitura imprime il gioco così sottile della luce e dell’ombra, dati dalla presenza o dall’assenza del segno e della figura, come dire che entrambe – la luce e l’ombra – sono elementi visualizzatori, e dunque morfemi di un linguaggio grafico che vuol rappresentare, nella levità puntuale dell’immagine, un paesaggio di appartenenza interiore. A tale paesaggio convengono la sensibilità evocativa della materia e, a un tempo, il rigore formale della partitura, per farne luogo poetico rivelatorio di un animo aperto su un mondo ancora proponibile come specchio dell’animo.

E Pizzanelli espone tutte le “alchimie”

Alberto Mugnaini per “La Nazione” ; Pisa, novembre 1990

 Un’alchimia della luce, tutta tesa a catturare le modalità di disvelamento delle forme ripercorrendone a ritroso il loro farsi e disfarsi sotto lo sguardo. Così potrebbe essere definita la ricerca artistica di Fabrizio Pizzanelli. Giunto al traguardo dei quarant’anni, l’artista si trova ad amministrare un capitale di perizia e di sapienza operativa accumulata in una lunga, paziente e illuminante frequentazione dei labirinti e degli abissi del chiaroscuro. Mezzo di immagine e oggetto di riflessione: l’acquaforte. Gli esiti di questa ricerca, basati su una tecnica antica e complicata, sono ora esposti, fino al 17 novembre presso la Galleria Simone Vallerini, in Piazza Bonamici. Le immagini che prendono vita sulla carta – angoli di giardino, scorci di vegetazione, prospettive che si aprono da finestre socchiuse – sembrano sbilanciare il tempo di apprendimento retinico dello spettatore; imponendo una sorta di controsguardo, secondo i ritmi di un flusso temporale parallelo, si condensano e prendono corpo per sfogliature atmosferiche, sbocciando alla vista come attraverso le smagliature di un reticolato di sipari luminosi e impalpabili. Le cose aggallano verso la propria verità librandosi sul loro fondo d’ombra, risalendo la gamma dei grigi nell’inseguimento di una loro abbagliante vertigine. In questo contesto la pratica incisoria va bel al di là della semplice funzione di mezzo tecnico. Essa si rivela un linguaggio esclusivo e insieme un modo di pensare, forse una predisposizione della mente. Filosofo di formazione, Pizzanelli ritrova nell’acquaforte la dignità di una disciplina speculativa, sulle piste di un’inafferrabile verità luminosa affiorante da un sottosuolo di lente incandescenze e carbonizzazioni.

Nicola Miceli “Incidendo, ricognizione sull’incisione italiana contemporanea”

Poggibonsi, Comune di Poggibonsi

Catalogo Lalli Editore, 1989

 Lo sguardo di Fabrizio Pizzanelli è attratto dall’enigma della luce che dilaga più che spiovere, che inonda a profusione il visibile, attenuandone l’icasticità tagliente, e intride l’invisibile disvelandone almeno in parte la celata fisionomia. Non si tratta di enigmi metafisici. Siamo piuttosto immersi in un clima rarefatto perché formalmente filtrato, talché il dato sensibile subisce alterazioni appena percepibili: un turbamento d’atmosfera, niente più che uno svisamento dell’a fuoco della visione; la quale par restituire con acribia l’oggettività del reale ed è, al contrario, registrata al senso della “durata” psicologica, agendo con lenta penetrazione sulle cose per coglierne gli strati sotterranei. Le segrete combustioni.

“Silvano Cei, Delio Gennai, Fabrizio Pizzanelli”

Andrea B. Del Guercio, Accademia di Brera, 1983

L'introduzione ad una pubblicazione che raccoglie il lavoro creativo di tre giovani artisti, Silvano Cei, Delio Gennai, Fabrizio Pizzanelli, impegnati in aree espressive diverse e con caratteristiche che forse si possono osservare come comuni attraverso la frequentazione di una città particolare quale Pisa e della quale per via introspettiva vivono una cultura visiva nella quale i dati dell'antico passato si confrontano con una stagione lunga di abbandono e di degrado, culturale ed economico, ed in maniera autonoma operano una lettura pietosa, un'introspezione sensibilissima, una lucida seppur indiretta denuncia, un luogo stimolante di ricerca per più ampie soluzioni espressive, dall'astrazione pittorico-segnica di Cei, al monocromatismo neo-metafisico di Gennai, alle pagine di poesia disegnate da Pizzanelli, ha come introduzione il ruolo specifico di proporre agli artisti qui coinvolti e quindi al consumatore di questo documento lo spazio e le condizioni di confronto e di verifica delle proprie responsabili posizioni e valutazione di una situazione critica e creativa attuale, evitando in ogni modo l'ancora diffuso cattivo costume di forzare i termini di comunioni che non esistono attraverso accomodanti soluzioni di cattiva letteratura...

Fabrizio Pizzanelli

La collocazione di un artista all’interno di una tendenza formale è uno degli aspetti più negativi, riduttivi e semplicistici, di un diffuso costume critico compiacente con un cattivo gusto popolare ed il corrispondente sistema delle arti; mi sono sempre rifiutato di partecipare a questa abitudine più tipicamente italiana, diffusa in provincia ma presente con caratteristiche diverse anche tra le avanguardie, cercando di legare anche artisti con provenienze, caratteristiche, aree di ricerca diverse intorno ad un tema e condizione culturale ampia, mai rilevatrice di presuntuose verità, ma al suo interno disponibile ad interpretazioni autonome da parte di altri operatori, colleghi, pubblico.

Difronte al lavoro che Fabrizio Pizzanelli conduce ormai da qualche anno con estrema serietà e progressione espressiva costante sulla strada di un sempre maggiore approfondimento emozionale-introspettivo del tema nelle sue diverse soluzioni tecnico-formali, la predilezione per l’incisione prima ed ora del disegno, osserverei bene una sua presenza in una nuova edizione della Mostra “Aspetti della figurazione in Toscana” – con Fallani, Bartolini, Benucci, Falconi, Doni; Galleria Comunale d’Arte Moderna Forte dei Marmi, 1981 – nella quale operavo, rispetto al paesaggio regionale ma con valore emblematico di una condizione più ampia, il recupero della figurazione attenta al suo “valore più antico ed originario, quello che dal secolo passato ad oggi non ha sentito il duro e sfibrante passaggio dei tempi ma in esso ha trovato conferme e motivi di arricchimento”. Nacquero in questo clima le immagini del ricordo, la vita ritornata dal passato attraverso le fotografie sbiadite di presenze familiari, che sappiamo frequentarono il paesaggio artistico del ‘900 e le Biennali di Venezia. Il rapporto tra Pizzanelli e questa eredità visiva e simbolica culturale lontana ma recuperata, rintracciata e quindi interiorizzata attraverso il lavoro creativo è il luogo da cui deve avviarsi una analisi precisa anche dell’attuale espressione. Un mondo familiare lontano ma dalle cui riletture dipende in qualche modo, ad un livello personale per l’artista ma con significato ampio anche per il collettivo, l’intera esigenza di comunicazione.

Alle ombre familiari affioranti dal ricordo, ma con lo stesso amorevole atteggiamento e con una accentuazione di trepidazione Pizzanelli ha avviato la lettura di un mondo vegetale, quella stessa natura abitata nei giardini, nei campi di primavera, lungo lentissimi corsi d’acqua. Difronte a questo mondo trepidante, dimenticato dalla contemporaneità, l’artista minuziosamente ne descrive la vita, la sua inconsistenza fisica come rispecchiamento, impalpabilità come ombre lievissime ed è ancora uno spazio ampio per affrontare e penetrare l’introspezione, l’amore lirico per le situazioni superficialmente ritenute minimali ma sicuramente originarie della nostra cultura moderna, l’impressionismo e tutta la letteratura posta fra ‘800 e ‘900. Anche il dato di letterarizzazione della narrazione di Pizzanelli segue di pari passo l’evoluzione del lavoro facendosi caratteristica su un piano di continuità con un clima toscano nel quale costante è l’impegno sull’immagine tratta direttamente dalla realtà ma poi più attentamente estratta dalle forme progressivamente accumulatesi nel percorso culturale, tra i dati della letteratura, della poesia, da quelli della musica a quelli dell’arte antica. Un incontro inscindibile ed in arricchimento tra realtà citate e rifesse, estratte e meditate nel ricordo del sentimento e dell’emozione, del desiderio d’amore per la vita. Una pittura che si accanisce in questo immenso territorio di ricerca che è l’emozione, il sussurro ed il ricordo, i profumi più delicati e quelli più rari.

Pizzanelli ha oggi più grande spazio per affrontare e verificare nuove situazioni emozionali che noi accogliamo con altrettanto stupore e partecipazione suggerendone l’apprezzamento nel collettivo in quanto espressione con valore universale ed oggi di costante enigmatica attualità.

Sandra Lischi per la mostra presso la “Galleria dei Giorni”

Pisa, febbraio 1981

La prima mostra di Fabrizio Pizzanelli, nel 1978, evidenziava una ricerca di cui i paesaggi esposti non erano che uno dei momenti: la campagna toscana, il suo susseguirsi di linee orizzontali appena interrotte dai segni verticali dei pali della luce e degli alberi, non era oggetto di una scelta realistica tradizionale – quella paesaggistica appunto – ma, piuttosto, occasione di una ricerca sui rapporti fra fotografia e grafica, di riflessione e sperimentazione sulla sintesi e sui tagli operati dalla macchina prima, dal disegno e dall’incisione poi. I paesaggi, alla fine, non erano più tali, pur mantenendo “indizi” di realtà; divenivano segni neri selezionati con parsimonia, linee sospese in equilibrio fra il terreno ondulato e il bianco latte del cielo di carta.

I disegni esposti ora, a distanza di tre anni, confermano una ricerca sulle tecniche di riproduzione del reale che è, stavolta, ancora più stratificata e complessa. Vi interviene, intanto, la presenza umana; e le immagini di partenza non sono il reale fotografato dall’autore (che poi lo reinterpreta disegnandolo) ma sono già interpretazioni del reale.

Il materiale di partenza è infatti costituito da un “corpus” di vecchie fotografie del 1919-20, realizzate a Torre del Lago (ritrovo, allora, di post-macchiaioli e di molti artisti italiani e stranieri) e di cui il pittore Ferruccio Pizzanelli si serviva per la propria produzione pittorica. A questa ricognizione fra le vecchie immagini di famiglia, fra le foto scattate dal nonno pittore, si sovrappone l’interesse per queste insolite riprese all’aria aperta e in piena luce, per queste inquadrature inconsuete anche per l’epoca, le donne coi vestiti gonfiati dal vento e gli ombrellini giapponesi a riparo dal sole e i bambini accovacciati sotto l’ombra di pergolati; figure sorprese nei movimenti più naturali e quotidiani e nei particolari che più interessavano al fotografo-pittore, anche a costo di tagliar via un pezzo di spiaggia o del giardino o, più arditamente, il volto o un fianco della persona ritratta.

A questa prima, lontana selezione finalizzata alla pittura, Fabrizio Pizzanelli sovrappone, sessant’anni più tardi, un’altra selezione che procede dalle vecchie fotografie al disegno. Riproduce così manualmente – e coi tempi lenti e lunghi di un accurato disporsi di segni a matita – una realtà remota che era stata riprodotta istantaneamente e meccanicamente; e nel far questo seleziona, taglia e sintetizza di nuovo. Alle macchie chiare e scure della fotografia sostituisce, sui grandi fogli di carta, i segni volutamente incompleti e volutamente “pallidi” di particolari e di figure isolate, messaggi che richiedono l’attenta partecipazione di chi guarda, proprio per la loro incompletezza, per un’impressione di evanescenza che costringe a “spiare” con cura queste tracce del passato.

Realizzando un “unicum” da un supporto riproducibile come la fotografia, Pizzanelli restituisce alle cose rappresentate quell’ “aura” magica di irripetibilità che la riproduzione tecnica aveva loro sottratto ma nello stesso tempo recupera alla storia presente una serie di immagini fotografiche deperibili, mortali. I disegni con le donne con i loro ampi vestiti, gli ombrellini da sole, i fiori dei giardini incolti sembrano restituire alle immagini – accentuandola – una fragilità che è quella del tempo che è realmente passato, una lontananza che rende le figure ombre, fantasmi, tracce. E, insieme – perché la ricognizione di Pizzanelli non è solo a ritroso – sintomi di una ricerca teorica e tecnica presente e attuale, anche se intrecciata con la memoria e la storia.

Sandra Lischi per “La Nazione”

Pisa, marzo 1978

Espone per la prima volta, alla Galleria dei Giorni (fino al 22 marzo), un giovane pittore pisano, Fabrizio Pizzanelli. “Pittore” è però, in questo caso, un termine improprio: si tratta infatti di una serie di disegni - 19, più cinque incisioni – delineati e tratteggiati sulla carta. Paesaggi: la curva di una collina toscana, il comporsi e lo scomporsi parallelo dell’erba e del fieno, qualche palo della luce, una casa, degli alberi. Nessun colore: matita (o meglio una mina particolare a metà fra il carboncino e la cera) su grandi fogli di carta, anch’essi scelti con cura per la loro grana, il loro spessore, il grado di luminosità. Il grigio, dunque, predomina. Segni puliti, accostati l’uno dopo l’altro meticolosamente fino ad ottenere quell’effetto di spazio e di luce, quel rapporto preciso fra i piani orizzontali della curva tenue dei colli e gli elementi verticali delle case, degli alberi e dei tralicci, che spiccano, leggermente più scuri, sulla linea fra il cielo bianco latte della carta ed i campi in primo piano.

Come è precisa e paziente l’elaborazione tecnica, grafica, così è complesso il percorso che va dai paesaggi (reali: la campagna al Crocino, la casa presso Santa Luce, uno scorcio lungo la via Emilia) a queste elaborazioni su carta. Paesaggi che richiamano senza possibilità di equivoci un referente reale (non “astratti”, dunque, almeno nel senso che comunemente si dà a questo termine) ma in cui è assente ogni tentazione bozzettistica, di quadretto d’ambiente campestre. Il procedimento della selezione dei materiali visivi è in Pizzanelli svolto su versante tutto diverso dallo schizzo dal vero, sul posto: la prima parte del lavoro si basa su accurate ed ampie ricognizioni fotografiche con una ripresa di angolazioni particolari, di inquadrature con un “taglio” preciso. Altra selezione, poi, sulle fotografie; altra elaborazione critica, altri tentativi, fino alla scelta definitiva del “campo visivo” da proporre, naturalmente trasformato, nella sua stesura finale. Il risultato, queste campagne silenziose e vaste, riprese in campo medio, è senz’altro originale, privo di qualunque spontaneismo e impressionismo e tanto più sorprendente per elaborazione e tecnica quanto più il “mezzo” usato, il disegno, si presta a immediatezza di tratto, a “bozzetto”, a improvvisazione. Un lavoro dunque serio e complesso, frutto di una serie di mediazioni tecniche e destinato a evolversi nella ricerca di quel “particolare tono di pausa atemporale” (come scrive Carlo Alberto Madrignani nella sua attenta presentazione alla mostra) che fa di questi paesaggi elaborazioni grafiche già ora inconfondibili.

Carlo Alberto Madrignani, Università di Pisa  

per la mostra presso la “Galleria dei Giorni”

Pisa, marzo 1978

In tempi smaliziati come i nostri incontrare un giovane pittore che esponga le sue prime prove come paesaggista è un caso raro. Non si sa bene come qualificarlo; se ingenuo continuatore di una tradizione di provincia o spericolato innovatore, che vuol esercitare talento e gusto sul terreno più difficile, quello santificato dalla più logora tradizione. Tale presupposto atto di coraggio si configura poi come una sfida se il giovane di cui si parla osa l’inosabile, affida agli occhi dei “lettori” un intero, complessivo, organico ciclo di paesaggi, il risultato di un’assillante fatica su un unico tema, sia pure modulato variamente all’interno di una partitura omogenea.

E’ questo il caso dei paesaggi del Pizzanelli, che qui si presentano come “opera prima”, senza tuttavia insistere su tale qualifica anagrafica (quante “opere decime o ventesime” si vorrebbe poterle pensare come “prime”!).  Pizzanelli comincia, o meglio prosegue, una sua tacita ricerca, partendo dal “genere” più abusato, specie in Toscana, quello, tanto per intenderci, del paesaggista della domenica; in realtà egli predilige visivamente una particolare fetta di questa regione, la solca con lo sguardo, la immobilizza in alcune linee essenziali e ne fa oggetto esclusivo, quasi ossessivo, della sua reiterata sperimentazione grafica. Comunque da tale frequentazione con un paesaggio, e con un “genere”, quello che si evidenzia, in queste composizioni, è la totale negazione, il ripudio fisiologico di ogni forma di “svago”; non è la “bellezza” del paesaggio a colpirlo (e a colpirci); non si resta mai, come si suol dire, “incantati”. E infatti manca (è stato cioè accuratamente scartato) il referente primario del “genere”, il colore, con quella predisposizione al piacere della visione che esso comporta.

Pizzanelli ama invece cimentarsi su un terreno più arduo: partendo dalla memoria visiva ci dà il paesaggio senza fornirci il “genere”, come a dire, invita (o costringe) non a godere, almeno in prima istanza, ma a mediare, a soffermarci con l’occhio non immediatamente appagato sulla trama intricata, sottile, variegata di questi labirinti, di questi percorsi, che non ammettono compiacimenti o distrazioni. La scelta della matita (e di una matita morbida, a volte polposa) è la scelta di fondo, quella che esclude di fatto, senza alcuna possibilità di equivoco, ogni sia pur decoroso riferimento al paesaggismo di tradizione toscana. Ecco come l’artista si misura con una tecnica nuova, fors’anche inedita, derivata da un contatto con la terra estremamente filtrato, fuori da ogni immediatezza e visceralità, estranea ad ogni richiamo del vissuto; non è la Toscana della zona fra Lorenzana e Santa Luce che stiamo “rivedendo”, è il paesaggio di un artista che taglia, depura, linearizza con sobrietà esemplare, fino a rimodellare la corposità dell’oggetto. Un intervento di questo genere non è certo quello dell’artista-lirico, che, come si usa dire, dà un tocco poetico alla realtà. Pizzanelli non liricizza, almeno non in questi termini, agisce in maniera più complessiva e più nel profondo, al livello di una ristrutturazione essenziale; mette sulla carta morbida e porosa gli spazi di un paesaggio nel suo insieme, rifiutando ogni degustazione del particolare, della scena ben impostata; al contrario in questi disegni troviamo sempre larghi spazi dai contorni indefiniti, anzi quasi senza contorni, con cieli intatti, immacolati, lasciati così come la carta li offre, che si aprono dietro la linea ondulata dell’orizzonte come per accennare ad una ulteriore dimensione di lettura fantastica. Questa prevalenza del bianco, questo elemento di slargatura orizzontale vanno poi inseriti nel gioco di inarcature e nel movimento in cui si distende il terreno e suggeriscono quel particolare tono di pausa atemporale, che caratterizza in senso antipaesaggistico queste terre fuori da ogni contingenza stagionale.

Non è certo realistica o fotografica la matrice di questi paesaggi toscani. I segni storici o umani sono pochi e poco caratterizzati. Qualche casa padronale, qualche costruzione colonica si stagliano nei punti chiave della composizione e si tratta, quasi sempre, di momenti in cui la tecnica della prospettiva viene utilizzata nella maniera meno tradizionale, non per dare profondità o verosimiglianza al “quadro”, ma per esaltare quella orizzontalità, quella spaziatura di cui si diceva. Sono comunque elementi dello sfondo, tocchi di accurata dosatura, punti fissi di un mondo aperto, libero da ogni costrizione deliberatamente architettonica. Alla stessa funzione di spazialità, di segni che quantificano la distanza più ancora di quanto vogliano misurarla, si prestano le figure degli alberi o di ogni altro oggetto verticale. Non è fuor di luogo parlare di esigenze geometriche in senso etimologico o di ricorrenze ritmiche, di pause e riprese, purché tale linguaggio non evochi un tipo di composizione rigidamente costruita, da cui Pizzanelli si tiene saggiamente lontano, come da ogni gioco intellettualistico, da ogni esibizione di stilemi: il rifiuto del paesaggio tradizionale non implica il rifiuto tout court di ogni fascino della visione e della memoria figurativa.

Ma l’aspetto più incisivo, quello che più decide sulla costruzione del “quadro” è l’uso, come si è detto, del segno a matita. Il disegno non serve per nette divisioni della “tela”, nasce dal colpeggiare fitto, coerente, deciso, quasi implacabile della matita sulla carta; alla corposità dei colori si sostituisce l’intransigente, ostinato accumulo dei segni. Pizzanelli è un artista di puntigliosa pazienza, interviene impietosamente sulla carta fino a raggiungere l’effetto voluto; l’infoltirsi e il diradarsi dei tratti sostituiscono ogni effetto fotografico, ogni rimando al reale. In questo rigoroso confronto il bianco e nero della composizione ha la sostanza di un tessuto molecolare, di un tremolio legato alle esigenze della composizione in maniera da ottenere esiti di impalpabile coerenza. Si vedano gli effetti ottenuti con le masse cupe delle prime composizioni, dove prevale la volontà di restituirci i contrasti di un paesaggio giocando con lo scontro violento fra masse di segni più o meno ravvicinati, maniera questa, che ricorda certe acqueforti dai cupi chiaroscuri di stampo ottocentesco, qui abilmente rievocate dalle puntesecche, in cui decisive sono tuttavia la pastosità e luce della coloritura a seppia.

Ma Pizzanelli è soprattutto un artista graficamente parco; usa la matita con oculata parsimonia, come può adoperarla chi la ritenga un mezzo con cui variare o sfruttare il candore della carta. Si osservi il tracciato di questo itinerario artistico, così come ci è offerto dall’ordine cronologico dei disegni, e non sarà difficile accorgersi che si ha a che fare con un’opera di progressiva decantazione della materia, sempre più lontana da ogni “pieno” figurativo e mossa da uno spietato assillo di scavo e di sottrazione. Non di rado la spaziatura fra un segno e l’altro è l’elemento dominante del “quadro”, è la molecola su cui si regge l’economia dell’opera. Non solo i cieli vuoti, ma l’alternarsi fra zone chiare ed altre scure, la modulazione di bianchi e di grigi danno il ritmo di fondo di questo paesaggio sempre teso ad una sua stilizzazione, che raggiunge la delicatezza di certe tramature giapponesi, la loro estenuata, perentoria eleganza. Insomma la direzione in cui si muove questo tipo di castità grafica, equidistante dal calligramma come dalla emotività impressionistica, è quella riduzione della quantità dei segni per sostituirvi un loro impego altamente significativo ed incisivo. Ripercorrendo la linea di questo ciclo ci si accorge che si tratta di un tragitto verso il pacato registro di una spazialità gestita in tutto il suo candore, come momento di libertà inventiva, come conquista di una strumentazione segnica al limite del puro accenno, della pura vibrazione, al di là di ogni tematica georgica o pastorale. Culmine di questo processo di scavo e di stilizzazione, al centro di questa rete di segni, è l’ultimo di questi “paesaggi” (chiamiamoli ancora così), che è poi la più calibrata e squisita celebrazione dello spazio, segnato dai tratti di quei gracili pali che spingono verso l’alto, che dilatano la visualità oltre la linea dell’orizzonte, completando così l’armonica combinazione dei bianchi e neri, la loro calibrata tenuità, da cui discende il particolare effetto visivo di una diffusa, impalpabile costruzione monocroma, di castigata raffinatezza.

il testo è stato nuovamente pubblicato nel volume: "Carlo Alberto Madrignani, Verità e Visioni, poesia, pittura, cinema, politica" a cura di Alessio Giannanti e Giuseppe Lo Castro, Edizioni ETS, Pisa 2013