I paesaggi intorno...

Pizzanelli comincia, o meglio prosegue, una sua tacita ricerca, partendo dal genere più abusato specie in Toscana...

 Carlo Alberto Madrignani, Università di Pisa  

per la mostra presso la “Galleria dei Giorni”

Pisa, marzo 1978

In tempi smaliziati come i nostri incontrare un giovane pittore che esponga le sue prime prove come paesaggista è un caso raro. Non si sa bene come qualificarlo; se ingenuo continuatore di una tradizione di provincia o spericolato innovatore, che vuol esercitare talento e gusto sul terreno più difficile, quello santificato dalla più logora tradizione. Tale presupposto atto di coraggio si configura poi come una sfida se il giovane di cui si parla osa l’inosabile, affida agli occhi dei “lettori” un intero, complessivo, organico ciclo di paesaggi, il risultato di un’assillante fatica su un unico tema, sia pure modulato variamente all’interno di una partitura omogenea.

E’ questo il caso dei paesaggi del Pizzanelli, che qui si presentano come “opera prima”, senza tuttavia insistere su tale qualifica anagrafica (quante “opere decime o ventesime” si vorrebbe poterle pensare come “prime”!).  Pizzanelli comincia, o meglio prosegue, una sua tacita ricerca, partendo dal “genere” più abusato, specie in Toscana, quello, tanto per intenderci, del paesaggista della domenica; in realtà egli predilige visivamente una particolare fetta di questa regione, la solca con lo sguardo, la immobilizza in alcune linee essenziali e ne fa oggetto esclusivo, quasi ossessivo, della sua reiterata sperimentazione grafica. Comunque da tale frequentazione con un paesaggio, e con un “genere”, quello che si evidenzia, in queste composizioni, è la totale negazione, il ripudio fisiologico di ogni forma di “svago”; non è la “bellezza” del paesaggio a colpirlo (e a colpirci); non si resta mai, come si suol dire, “incantati”. E infatti manca (è stato cioè accuratamente scartato) il referente primario del “genere”, il colore, con quella predisposizione al piacere della visione che esso comporta.

Pizzanelli ama invece cimentarsi su un terreno più arduo: partendo dalla memoria visiva ci dà il paesaggio senza fornirci il “genere”, come a dire, invita (o costringe) non a godere, almeno in prima istanza, ma a mediare, a soffermarci con l’occhio non immediatamente appagato sulla trama intricata, sottile, variegata di questi labirinti, di questi percorsi, che non ammettono compiacimenti o distrazioni. La scelta della matita (e di una matita morbida, a volte polposa) è la scelta di fondo, quella che esclude di fatto, senza alcuna possibilità di equivoco, ogni sia pur decoroso riferimento al paesaggismo di tradizione toscana. Ecco come l’artista si misura con una tecnica nuova, fors’anche inedita, derivata da un contatto con la terra estremamente filtrato, fuori da ogni immediatezza e visceralità, estranea ad ogni richiamo del vissuto; non è la Toscana della zona fra Lorenzana e Santa Luce che stiamo “rivedendo”, è il paesaggio di un artista che taglia, depura, linearizza con sobrietà esemplare, fino a rimodellare la corposità dell’oggetto. Un intervento di questo genere non è certo quello dell’artista-lirico, che, come si usa dire, dà un tocco poetico alla realtà. Pizzanelli non liricizza, almeno non in questi termini, agisce in maniera più complessiva e più nel profondo, al livello di una ristrutturazione essenziale; mette sulla carta morbida e porosa gli spazi di un paesaggio nel suo insieme, rifiutando ogni degustazione del particolare, della scena ben impostata; al contrario in questi disegni troviamo sempre larghi spazi dai contorni indefiniti, anzi quasi senza contorni, con cieli intatti, immacolati, lasciati così come la carta li offre, che si aprono dietro la linea ondulata dell’orizzonte come per accennare ad una ulteriore dimensione di lettura fantastica. Questa prevalenza del bianco, questo elemento di slargatura orizzontale vanno poi inseriti nel gioco di inarcature e nel movimento in cui si distende il terreno e suggeriscono quel particolare tono di pausa atemporale, che caratterizza in senso antipaesaggistico queste terre fuori da ogni contingenza stagionale.

Non è certo realistica o fotografica la matrice di questi paesaggi toscani. I segni storici o umani sono pochi e poco caratterizzati. Qualche casa padronale, qualche costruzione colonica si stagliano nei punti chiave della composizione e si tratta, quasi sempre, di momenti in cui la tecnica della prospettiva viene utilizzata nella maniera meno tradizionale, non per dare profondità o verosimiglianza al “quadro”, ma per esaltare quella orizzontalità, quella spaziatura di cui si diceva. Sono comunque elementi dello sfondo, tocchi di accurata dosatura, punti fissi di un mondo aperto, libero da ogni costrizione deliberatamente architettonica. Alla stessa funzione di spazialità, di segni che quantificano la distanza più ancora di quanto vogliano misurarla, si prestano le figure degli alberi o di ogni altro oggetto verticale. Non è fuor di luogo parlare di esigenze geometriche in senso etimologico o di ricorrenze ritmiche, di pause e riprese, purché tale linguaggio non evochi un tipo di composizione rigidamente costruita, da cui Pizzanelli si tiene saggiamente lontano, come da ogni gioco intellettualistico, da ogni esibizione di stilemi: il rifiuto del paesaggio tradizionale non implica il rifiuto tout court di ogni fascino della visione e della memoria figurativa.

Ma l’aspetto più incisivo, quello che più decide sulla costruzione del “quadro” è l’uso, come si è detto, del segno a matita. Il disegno non serve per nette divisioni della “tela”, nasce dal colpeggiare fitto, coerente, deciso, quasi implacabile della matita sulla carta; alla corposità dei colori si sostituisce l’intransigente, ostinato accumulo dei segni. Pizzanelli è un artista di puntigliosa pazienza, interviene impietosamente sulla carta fino a raggiungere l’effetto voluto; l’infoltirsi e il diradarsi dei tratti sostituiscono ogni effetto fotografico, ogni rimando al reale. In questo rigoroso confronto il bianco e nero della composizione ha la sostanza di un tessuto molecolare, di un tremolio legato alle esigenze della composizione in maniera da ottenere esiti di impalpabile coerenza. Si vedano gli effetti ottenuti con le masse cupe delle prime composizioni, dove prevale la volontà di restituirci i contrasti di un paesaggio giocando con lo scontro violento fra masse di segni più o meno ravvicinati, maniera questa, che ricorda certe acqueforti dai cupi chiaroscuri di stampo ottocentesco, qui abilmente rievocate dalle puntesecche, in cui decisive sono tuttavia la pastosità e luce della coloritura a seppia.

Ma Pizzanelli è soprattutto un artista graficamente parco; usa la matita con oculata parsimonia, come può adoperarla chi la ritenga un mezzo con cui variare o sfruttare il candore della carta. Si osservi il tracciato di questo itinerario artistico, così come ci è offerto dall’ordine cronologico dei disegni, e non sarà difficile accorgersi che si ha a che fare con un’opera di progressiva decantazione della materia, sempre più lontana da ogni “pieno” figurativo e mossa da uno spietato assillo di scavo e di sottrazione. Non di rado la spaziatura fra un segno e l’altro è l’elemento dominante del “quadro”, è la molecola su cui si regge l’economia dell’opera. Non solo i cieli vuoti, ma l’alternarsi fra zone chiare ed altre scure, la modulazione di bianchi e di grigi danno il ritmo di fondo di questo paesaggio sempre teso ad una sua stilizzazione, che raggiunge la delicatezza di certe tramature giapponesi, la loro estenuata, perentoria eleganza. Insomma la direzione in cui si muove questo tipo di castità grafica, equidistante dal calligramma come dalla emotività impressionistica, è quella riduzione della quantità dei segni per sostituirvi un loro impego altamente significativo ed incisivo. Ripercorrendo la linea di questo ciclo ci si accorge che si tratta di un tragitto verso il pacato registro di una spazialità gestita in tutto il suo candore, come momento di libertà inventiva, come conquista di una strumentazione segnica al limite del puro accenno, della pura vibrazione, al di là di ogni tematica georgica o pastorale. Culmine di questo processo di scavo e di stilizzazione, al centro di questa rete di segni, è l’ultimo di questi “paesaggi” (chiamiamoli ancora così), che è poi la più calibrata e squisita celebrazione dello spazio, segnato dai tratti di quei gracili pali che spingono verso l’alto, che dilatano la visualità oltre la linea dell’orizzonte, completando così l’armonica combinazione dei bianchi e neri, la loro calibrata tenuità, da cui discende il particolare effetto visivo di una diffusa, impalpabile costruzione monocroma, di castigata raffinatezza.

 Sandra Lischi per “La Nazione”

Pisa, marzo 1978

Espone per la prima volta, alla Galleria dei Giorni (fino al 22 marzo), un giovane pittore pisano, Fabrizio Pizzanelli. “Pittore” è però, in questo caso, un termine improprio: si tratta infatti di una serie di disegni - 19, più cinque incisioni – delineati e tratteggiati sulla carta. Paesaggi: la curva di una collina toscana, il comporsi e lo scomporsi parallelo dell’erba e del fieno, qualche palo della luce, una casa, degli alberi. Nessun colore: matita (o meglio una mina particolare a metà fra il carboncino e la cera) su grandi fogli di carta, anch’essi scelti con cura per la loro grana, il loro spessore, il grado di luminosità. Il grigio, dunque, predomina. Segni puliti, accostati l’uno dopo l’altro meticolosamente fino ad ottenere quell’effetto di spazio e di luce, quel rapporto preciso fra i piani orizzontali della curva tenue dei colli e gli elementi verticali delle case, degli alberi e dei tralicci, che spiccano, leggermente più scuri, sulla linea fra il cielo bianco latte della carta ed i campi in primo piano.

Come è precisa e paziente l’elaborazione tecnica, grafica, così è complesso il percorso che va dai paesaggi (reali: la campagna al Crocino, la casa presso Santa Luce, uno scorcio lungo la via Emilia) a queste elaborazioni su carta. Paesaggi che richiamano senza possibilità di equivoci un referente reale (non “astratti”, dunque, almeno nel senso che comunemente si dà a questo termine) ma in cui è assente ogni tentazione bozzettistica, di quadretto d’ambiente campestre. Il procedimento della selezione dei materiali visivi è in Pizzanelli svolto su versante tutto diverso dallo schizzo dal vero, sul posto: la prima parte del lavoro si basa su accurate ed ampie ricognizioni fotografiche con una ripresa di angolazioni particolari, di inquadrature con un “taglio” preciso. Altra selezione, poi, sulle fotografie; altra elaborazione critica, altri tentativi, fino alla scelta definitiva del “campo visivo” da proporre, naturalmente trasformato, nella sua stesura finale. Il risultato, queste campagne silenziose e vaste, riprese in campo medio, è senz’altro originale, privo di qualunque spontaneismo e impressionismo e tanto più sorprendente per elaborazione e tecnica quanto più il “mezzo” usato, il disegno, si presta a immediatezza di tratto, a “bozzetto”, a improvvisazione. Un lavoro dunque serio e complesso, frutto di una serie di mediazioni tecniche e destinato a evolversi nella ricerca di quel “particolare tono di pausa atemporale” (come scrive Carlo Alberto Madrignani nella sua attenta presentazione alla mostra) che fa di questi paesaggi elaborazioni grafiche già ora inconfondibili.