Orientalismi, giardini, padiglioni di peonie

Barbara Henry

None of us is outside or beyond geography,
none of us is completely free from the struggle over geography
that struggle is complex and interesting because is not only about soldiers and cannons
but also about ideas, about forms, about images and imagining

Edward Said

 Nella cartografia antica i luoghi inesplorati (…) erano spesso indicati
con una indefinita locuzione, che solo avvertiva hic sunt leones, qui ci sono i leoni,
a dire tutta la fierezza di quella terra non battuta dal piede umano.
 I confini dello scibile (…) scolorano per questo in un mondo primordiale e incolto,
dove la natura non domata è soverchia rispetto a qualsiasi regola

Andrea Marmori

Incipit del testo in catalogo della mostra Hic sunt leones, Studio Gennai, 26 febbraio – 31 marzo 2011, Pisa)

 It is not down in any map; true places never are

Herman Melville, da Moby Dick

 Forte come la morte è l’amore

Cantico dei Cantici

            Le acqueforti, le acquetinte, le puntesecche di Fabrizio Pizzanelli sono i frutti maturi di una sperimentazione originale che al contempo conosce e addita ad allievi/e, cultori e cultrici d’arte i sentieri sicuri della grande tradizione grafica nazionale e internazionale, come fa un esploratore, esperto e affidabile, di un territorio in trasformazione. Se questo è vero, ha vieppiù senso per chi scrive onorare i linguaggi disciplinari e tecnici andando oltre l’interpretazione letterale dei loro costrutti; rispetto a Pizzanelli, le incisioni su rame, realizzate con un nitore concettuale impeccabile e inconfondibile, sono molto di più di una squisita realizzazione ‘materiale’ di un modello ‘mentale’ tramite la puntuale messa in esercizio delle tecniche canoniche; piuttosto, esse svelano e indicano mondi ‘altri’, essendo opere in cui regna un paradosso, quello di essere dominate da uno spirito geometrico produttivo di tratti rigorosi e nondimeno di misteriosi anfratti speculari, per quanto normalizzati dalla logica della duplicazione tipica della grafica come arte; queste sfere speculari sono non-luoghi, aree simboliche eteree e sognanti, e pur sempre indirizzate dal nitore dell’intelletto in alvei sicuri, in quelli rappresentati dai nostri mondi abituali, domestici e ‘civilizzati’, dei giardini, dei pergolati, dei viottoli, delle vedute, delle piccole stazioni ferroviarie e di sosta, degli scorci di borghi e contadi tipici della nobilissima tradizione pittorica e artistica toscana. Questi non-luoghi dischiusi dal quotidiano sono allusivi, simili al rumore di sorgenti nascoste; sospendono la capacità di orientamento, sono spaesanti. Un esperimento, questo, di geografia visionaria, in cui il mito della separazione fra osservatore privilegiato (l’artista/fruitore d’arte che dà nome alle cose), e ‘il’ luogo osservato-descritto univocamente, viene a cadere, a favore di una prospettiva cartografica, e criticamente orientalista. Una cartografia, come la si intende qui, è l’immagine in trasformazione di un territorio che è a sua volta in cambiamento, e in cui i redattori della mappa sono calati nel territorio stesso nel momento in cui la disegnano. Essere orientalisti critici significa che la costruzione di ogni alterità, e l’oriente è  quella che da molti secoli è divenuta per noi l’alterità per eccellenza, si riferisce in prima battuta alla coappartenenza indistricabile e vitale fra i due lati, e in seconda battuta alla consapevolezza critica e responsabile che l’alterità/oriente non è mai semplicemente dato, non è mai trovato o incontrato, ma piuttosto è stato fabbricato dall’immaginazione disciplinata dalle scienze occidentali. L’illuminismo di Pizzanelli, essendo consapevole di quanto è stato perpetrato nel passato, e perdura nel presente, non produce affatto la colonizzazione ed espropriazione dei mondi della vita, non annichilisce l’alterità, ovvero il quid indomabile dei molteplici individui e contesti plurali unici, la scintilla dell’individuale/plurale che sfugge al dominio della razionalità strumentale. Mai come in questo caso i confini dei mondi divengono penetrabili, fluidi, morbidi, oltrepassabili e non più ostili; soprattutto si scolorano e cadono le barriere definitorie, quelle che sono state irrigidite per secoli dall’apparato coloniale dei saperi enciclopedici, dalla geografia all’architettura e all’antropologia di epoca coloniale; tale sistema ha fondato, oltre al dominio militare, economico e politico esteso su due terzi del globo, anche il potere linguistico, simbolico ed estetico, il dispositivo egemonico che è stato ancor più pervasivo del primo; l’orientalismo. Tale apparato, appunto, il lato seduttivo ma inesorabile del colonialismo coercitivo, qui non ha voce; non ha vie di accesso nella forma di laccio insidioso che si abbatte come una rete classificatoria sulla miriade di specie variopinte di essere viventi, vegetali, animali, e di culture umane, collocate da noi europei/e occidentali nell’’altrove’ esotico. Piuttosto l’orientalismo diviene erosione di sé dal proprio interno, in modo tale che l’occidente e l’oriente, il domestico e l’esotico, il noi e il loro, non sono più termini reciprocamente escludentesi ma comprensibili e co-originari. Come accade in Palma e glicine, l’opera in cui per chi scrive è forte richiamo allusivo e spaesato, a partire dal ‘qui e ora’ della pianta familiare e primaverile, alle ambientazioni sognanti dell’opera classica per la letteratura di epoca Ming, Il padiglione delle peonie di Tang Xianzu (1550-1616); questa trama, che uno sguardo distratto e stereotipato collocherebbe nell’epoca dell’Inghilterra elisabettiana, inneggia all’adagio per cui l’amore è un tema eterno, non da ultimo nel suo cimento irrisolto con la morte. Forte come la morte è l’amore. La libertà di scelta dell’amato/a e la forza del legame che fa incontrare gli amanti nella morte e perfino oltre non risultano essere proprietà esclusiva di un solo emisfero del globo.

            Un paradosso, dunque, l’orientalismo critico che si fa immagine, perché i percorsi sino nitidi e al contempo capaci di evocare nascosti labirinti e luoghi indomabili, protetti da muri ubertosi di fronde morbide e vellutate, fronde che svelano infinite trame di un nero generoso e molteplice, rigoroso e insieme ricco di velature potenzialmente infinite.

            Le linee e le immagini che ne derivano, i singoli oggetti d’arte, sono ciò che appaiono senza che resti altro da spiegare, sono un fenomeno originario (J.W. v. Goethe) dal punto di vista dell’esperienza estetica, pur essendo un tipico esempio di opera nell’era della riproducibilità tecnica (W.Benjamin). Possono a buon diritto costituire un tale paradosso; lo sono in quanto proiezioni, prima su lastra e poi su carta, di trame sapienti ideali e archetipe soggiacenti a loro stesse, e rampollano da interconnessioni fra le segnature – i segni e i sigilli nella materia, il rame, l’acido, la carta, che producono effetti visivi – e i significati; le visioni mentali che Pizzanelli vede con l’impiego delle sue facoltà visionarie sono antecedenti, autonome, nonché strettamente determinanti rispetto ai risultati, ma del pari restano consegnate alla propria riproducibilità finita, predisposte a dar vita nel mondo sensibile a risultati uguali a se stessi a partire da un prototipo che l’artista ha decretato come l’unico e il primo. Le copie, lo si sa, sono per definizione duplicazioni ‘autentiche’ e contrassegnate dal nome dell’artefice, che le riconosce come proprie, e al contempo sono ripetizioni di ‘una’ visione del mondo archetipica e pur soggettiva. Nel caso di Fabrizio Pizzanelli questi duplicati non soltanto costituiscono i multipli di una immagine costruita e ‘disegnata’ idealmente allo specchio, ma sono anche le segnature delle cose, le cause che si manifestano senza veli nei fenomeni a cui danno vita. I segni e i sigilli del reale, visibili in filigrana soltanto all’occhio visionario dell’artista, vengono resi accessibili a noi profani dalla visione sinottica, ma chiara e dettagliata, e pertanto lungimirante, che la mente illuminata dello stesso artefice possiede e disvela: la vista simultanea è dei tratti, del disegno, del costrutto, delle proporzioni fra gli elementi chimici, e si innesta fra i tempi e le ‘morsure’ dell’acido sui segni graffiati e incisi con delicatezza sulle lastre di rame. Come nel caso dell’opera chiamata La casa di Sandra che lascia le linee perfette di una panchina e di un muro basso a protezione, e non in antitesi, a una setosa esplosione di palmizi e pini mediterranei. O nell’esemplare unico, stampato con fondino giallo, in cui la verticalità di un nastro/colonna apparentemente netta e nera, ma in realtà ad uno sguardo più attento sgranata e ‘friabile’, delimita e con ciò lascia rampollare ai propri lati fronde di arbusti e piante rigogliose provenienti da latitudini diverse. Questo avviene nella quasi totale, e non casuale, assenza di figure umane, in questa specifica fase, momento in cui Pizzanelli abbandona ed evoca, a partire dal vuoto o dalla mera citazione, il pieno delle biografie e dei ricordi individuali e familiari, che stavano invece a fondamento delle produzioni degli anni Ottanta del secolo passato.

            Tale immagine astratta di un ordine perfetto e silente, di una natura antropizzata per sola via poetica, viene proiettata e riprodotta dall’artefice; ma ciò può accadere grazie al senso dell’adeguatezza e al tatto grazie a cui Pizzanelli viene a patti con le striature e gli ispessimenti e gli scarti della materia, in tal modo andando oltre e sublimando l’immediato percettivo e sensoriale, oltre il denso luogo del vissuto materiale che l’artista ha di fronte prima e dopo il processo ideativo. Alchimia e scienza si sono abbracciate, rigore e felicità si sono baciate.

 Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”

ETS edizioni, Pisa 2016, stampato in occasione della mostra tenutasi al Museo della Grafica di Pisa