quotidiani, mediterranei paesaggi

A Pisa, segnatamente ai suoi giardini...

 …a Pisa, segnatamente ai suoi giardini segreti lungo la cinta delle mura medievali e, imprevedibili quanto pieni di fascino, persino venato di esotismo, oltre i molti e alti muri perimetrali dei palazzi nel suo cuore urbano, Fabrizio Pizzanelli ha dedicato una parte consistente del suo catalogo di incisore capace di affidare al segno, alla puntualità e insieme alla delicatezza del segno, il senso non straniante ma intimamente poetico di un clima e di un tempo assorti e come sospesi. C’è indubbiamente un rapimento metafisico nella contemplazione, per via analitica ma non insistita o icastica delle tessiture del segno della grande palma e delle siepi di un angolo del giardino di Sant’Anna visitato dal fraseggio discreto delle ombre e della luce  (Nicola Micieli 2012)

 

Nicola Micieli per la mostra presso la “Galleria Simone Vallerini”

Pisa, ottobre 1994

Ci sono artisti che, come Fabrizio Pizzanelli, non amano il divagare eccitato della fantasia. Ai percorsi divergenti costellati di sirene, essi preferiscono la perlustrazione ravvicinata, la convergenza su un ristretto campo visivo.

Costoro amano i territori poco frequentati. Sono cultori di microuniversi riservati, che direi quasi iniziatici, il cui accesso è consentito solo a chi possegga la capacità di concentrare lo sguardo su un frammento – per altri insignificante – dell’illimitato mondo fenomenico, e di sondare in profondità piuttosto che in estensione, da maieuta operando il disvelamento dell’immagine sepolta.

Meglio se lo sguardo investe un oggetto, una figura, un aspetto familiare della realtà. La consuetudine con la “cosa” consente, difatti, di evitare le lusinghe o le distrazioni delle apparenze sensibili, e di concentrarsi sulla sua tessitura visiva, per le cui maglie l’occhio può calarsi in profondità e recuperare la forma interiorizzata, la figura essenziale della propria dolce ossessione.

Un’indagine mirata al superamento del diaframma ottico implica un processo formatore meticoloso e ispirato alla durata, da “école du regard” alla Robbe-Grillet. L’immagine che scaturisce da una così puntuale e partecipata ricognizione non può essere che rivelatrice, giocata sulla qualità e sull’ambiguità poetica della forma. Nella quale rifluisce la dimensione sommersa, l’identità segreta e inusuale di una realtà che appare “strana” solo per la nostra disabitudine al vedere consapevole – come dire in complicità di sensi e di sovrasensi – il mondo che ci circonda, presi come siamo da una sorta di schizofrenia percettiva connessa al consumo onnivoro neanche più, ormai, di cose concrete, ma dei loro simulacri o simboli iconici, che i media ci inviano con flusso continuo, nel loro folle carosello informativo.

L’inclinazione dello sguardo allo svelamento non sfocia necessariamente nella distillazione metafisica dell’immagine o, all’opposto, nel suo congelamento per acribia analitica della forma. Tra le rivelazione metafisica dell’assenza o del non essere e l’eliottiana individuazione di un simulacro che, per la sua finitezza oggettuale, sostituisce crudelmente l’essere, vi è una gradualità di definizione figurale delle cose, e dirò meglio della loro orditura luminosa in quanto forme della visualità pittorica o grafica, che corrisponde agli atteggiamenti diversi delle singole personalità rispetto alla vita e alle sue istanze, prima che al mezzo espressivo e alla destinazione poetica del linguaggio.

C’è in Italia – ma non mancano riscontri stranieri – un cospicuo versante della ricerca d’immagine che si mantiene in quest’area liminare tra metafisica e oggettualità. Vi appartengono artisti di diverse generazioni, da Giuseppe Bartolini a Gianfranco Ferroni a Sandro Luporini a Giorgio Tonelli, per citare solo alcuni tra quelli che risultano più vicini alla sensibilità e alla poetica di Fabrizio Pizzanelli, l’incisore pisano che in questa congerie si è ormai inserito con una propria voce precisamente delineata.

Ognuno di questi autori si muove secondo precipue modalità stilistiche, ma è innegabile la loro appartenenza a una comune cultura d’immagine. E’ un’area nella quale la decantazione formale del dato visivo corrisponde a una disciplina interiore, finalizzata a rendere percepibile non la realtà, ma il sentimento del tempo e dell’ora che promana nel silenzioso comporsi della materia pittorica rarefatta e intrisa d’una luce mentale, in uno spazio depurato d’ogni fenomenicità, reso luogo evocativo, a suo modo magico nel senso che per incanto potrebbe farsi teatro di apparizioni impreviste.

Altrove ho indugiato a descrivere la qualità dell’immagine e il linguaggio grafico di Pizzanelli, che è autore riservato e tutt’altro che prolifico, riducendosi a poche decine i titoli ascrivibili al suo catalogo di incisore, ma certo d’un respiro adeguato, per dominio del mezzo e per individuazione del mondo poetico, alle esperienze maggiori dell’acquaforte italiana contemporanea.

Pizzanelli ama le luci meridiane, ed è incisore di esterni. Il suo sguardo indugia volentieri sul paesaggio dimesso della periferia urbana, sugli slarghi delle strade che accolgono i giochi dei ragazzi o lungo i marciapiedi della ferrovia, cui fanno da quinta le siepi di bosso. Tra gli altri elementi diffusi del “paesaggio” antropico, egli predilige i muri assolati che riecheggiano il “meriggiare pallido e assorto” di Montale, anche se non delimitano gli orti pensili del dirupato territorio ligure, e magari custodiscono giardini privati, della cui vegetazione esuberante tracimano le chiome degli altifusti.

Nell’album delle sue vedute incontriamo i giardini della comune topografia residenziale, poniamo del lungomare versiliese la cui vegetazione lascia indovinare, dai riverberi della luce, l’orizzonte basso del mare retrostante; ma la nostra attenzione è guidata anche nel cuore antico di una Pisa che l’iconografia di Pizzanelli presenta proprio come una città di giardini, di cui il maggiore, quello dei Semplici, è il vetusto orto botanico che accoglie erbe e piante rare ed esotiche. Il linguaggio grafico è il più idoneo a restituire i silenzi abbacinati dell’ora meridiana. La tessitura del segno è variegata su una gamma che va dall’ombra profonda alla chiazzatura dei grigi dati dalla luce filtrata, fino al bianco assoluto che proietta lo sguardo verso l’infinitudine dello spazio.

Pizzanelli assegna ai bianchi una importate funzione costruttiva dell’immagine. Il bianco è la risoluzione o la liberazione nello spazio del formicolio, della fitta granitura o maculazione segnica che variega le superfici, figurando la sequenza dei piani prospettici nel paesaggio e negli edifici o l’esuberanza dei valori morfologici di un albero maestoso che domina la campagna. Sovente l’idea liberatoria è suggerita persino dal taglio dell’immagine, inquadrata da sott’insù a cogliere tra cielo e terra l’evento improvviso, la rivelazione della quintessenza di vita insita nel brulichio di una fronda. Altrove la scelta del prospetto frontale utilizza le campiture assolute del bianco come tasselli di vetrata, ossia inducendo l’idea della trasparenza, un complemento intuitivo di quell’insinuarsi dello sguardo entro le zone d’ombra, attraverso le minutissime chiazze di luce filtrante che sempre animano le grandi superfici incise e fanno vibrare l’immagine.

Siamo in presenza di un artista contemplativo, in definitiva. L’apparenza oggettiva dell’immagine non ingannerà chi sa cogliere le vibrazioni minute, e graficamente raffinate, che alla partitura imprime il gioco così sottile della luce e dell’ombra, dati dalla presenza o dall’assenza del segno e della figura, come dire che entrambe – la luce e l’ombra – sono elementi visualizzatori, e dunque morfemi di un linguaggio grafico che vuol rappresentare, nella levità puntuale dell’immagine, un paesaggio di appartenenza interiore. A tale paesaggio convengono la sensibilità evocativa della materia e, a un tempo, il rigore formale della partitura, per farne luogo poetico rivelatorio di un animo aperto su un mondo ancora proponibile come specchio dell’animo.

 

 Mediterranei Quotidiani Paesaggi

Pier Francesco Listri per la mostra presso il Palazzo Pretorio

A cura del Comune di Certaldo, agosto 1999

 Oltre al visibilio multicolore dei nostri occhi, poveri e affannati registratori della civiltà dell’immagine, tocca alla mente riassumere e ordinare – proporre all’immaginazione e serbare alla memoria – la cifra suprema del reale, il senso più certo delle cose, rivivendole in uno scarno e ultimativo, astratto bianco e nero.

Da sempre ogni maestro di acquaforte – fratello maggiore o minore del pittore – conosce o intuisce questo segreto, tanto più in un’epoca come l’attuale che assegna al visibile tanto prepotente dominio sugli altri sensi. Provetto fra pochi, Fabrizio Pizzanelli, incisore pisano, giovane di età ma non di ben apprezzata esperienza, testimonia con rara eleganza dell’intelligenza questa condizione espressiva che personalmente arricchisce di un prezioso ossimoro: cogliere con fedeltà il particolare, scheggia o frammento di visione e subito trasferirlo nella sfera archetipica e memoriale. Dunque per le acqueforti di Pizzanelli – fedeli all’hic et nunc della visione e insieme vittoriosamente metatemporali -davvero si impone il disperato e modernissimo impegno che Klee riassume nelle parole: “ruolo dell’arte non è riprodurre il visibile. Ma quello di renderlo visibile”.

La storia di Pizzanelli ha scarne tappe esteriori, perché la sua coerenza puntigliosa e tranquilla gli ha evitato dispersive innovazioni prediligendo di approfondire le subito elette sue essenze, visive e non solo. Tutta la sua opera – cui certo non resta estranea la formazione universitaria di filosofo, giacché pensiero e acquaforte combinano e puntano alle essenze – mi pare dunque consista in un’etica espressiva che punta a dare senso alle forme. Osservando le sue acqueforti se ne coglie subito l’immacolata asciuttezza, immagini indenni dai lenocini del patetico come dai trabocchetti dell’ideologia.

Certo, ogni artista muove da influenze nella tradizione e da suggestioni coeve. Non è difficile per Pizzanelli richiamarsi a quella pittura della luce che avvia e traversa l’arte moderna – Vermeer e gli altri nordici – e che, nella storia delle forme si arricchisce, da noi, di una diversa luce mediterranea.

Quanto ai coevi, il territorio è segnato da diversi poli, tra loro disaffini: la monastica, altissima penetrazione etico-formale di Morandi e l’opposta, inquieta e vivacissima narratività, sorretta da prestigiosa magia tecnica, di Viviani (Pisa docet). Né sia esente, il severo discorso espressivo di Pizzanelli, da quella armonica compiutezza compositiva del supremo Piero, condanna e privilegio di ogni occhio toscano.

Tuttavia non c’è acquaforte di Pizzanelli che non tenda e induca anche a un’altissima emozione. Emozione dello sguardo (ma non solo percettiva) che tende al cuore delle cose attraverso la datità del reale.

Dove, dunque, si posa lo sguardo di questo raro incisore? Evitando un inventario di soggetti (la letteratura mima ma non spiega i segreti della visione), vi sono scelte precipue di questo artista, elette a cifre ed emblemi sempre variati con costante fedeltà. Direi che si appuntano su quelle “terre desolate” di eliottiana memoria che sono, al tirar delle somme, le oasi festose e umili della brulicante civiltà contemporanea. Periferie spirituali, se vogliamo segnate fra terra e mare, fra segno dell’uomo e sua assenza. Mediterraneo, Pizzanelli iscrive la sua geografia tematica (che poi coincide con la sintassi espressiva), verso quella natura aspra e marina, selvaggia e memoriale che Montale ci ha insegnato a riconoscere nei suoi aspri e simbolici e memoriali paesaggi poetici liguri.

Ma in Pizzanelli per così dire addolciti dal raziocinio, da una più antica, etrusca grammatica ambientale tirrenica.

Se osservate una sua acquaforte, molte sue acqueforti notate che la datità rappresentata va sempre verso un oltre che è spazialità concreta (il mare, perlopiù) e insieme idea di assoluta libertà: ancora, dunque, quel mare montaliano, “via di fuga/labile come fra i sommossi campi/del mare, spuma o ruga”

Quando la scena è più circoscritta, i segni di Pizzanelli si imbattono (per scelta), e scendono a descrivere/districare, fitti e scuri e densi verdi viluppi vegetali di cui ogni linea è insieme segno e inventario: ancora una volta particolare e assoluto restano ossimoro e crocicchio di ogni icona pizzanelliana.

E se il mare, scenario che di rado appare e sempre lontano filo d’orizzonte, s’impone dappertutto invisibile e gaudioso preludio di luce che tutto investe, l’occhio sceglie e si affisa però su fotogrammi (il cinema è decisiva ginnastica semantica per tutto il visibile novecentesco) che mai assomigliano a “bozzetti” ma sempre incarnano lucidi “frammenti” (frammento non come realtà monca, ma come particolare separato che riassume l’insieme).

Questa percettività che in Pizzanelli subito diventa memoria (più del futuro che del passato) sceglie topografie dove il naturale serba il segno dell’uomo, dov’è natura costruita. E’ una mappa di paesaggi minimali: dintorni di stazioni, cancellate su giardini segreti, cieli segnati da pali della luce, vie bianche e polverose nel verde, assolati teoremi di geometrie urbane e suburbane, approdi di vegetazioni che anticipano le marine.

Qui il bianco e nero (le due note a disposizione dell’avaro maestro dell’acquaforte) emettono limpidi squilli, raccontano per contrasto o in armonia, scavano e carezzano le cose rendendole come visibili per la prima volta, in un magico silenzio senza tempo (pronuba è tuttavia spesso la luce meridiana).

E sebbene la storia dell’acquaforte sia ben lunga, Pizzanelli con le sue, bellissime, ci mostra come questo povero e unico binomio, questo bianco e nero, suonato poi per mille tonalità, sfumature e pedali (che ha nel cinema e nella fotografia un anonimo quanto potente alleato bicromatico) sia forse il più selettivamente adatto a restituirci quel senso di spoliazione metropolitana, di assenza gremita di presenza, di allusiva foresta di simboli di cui l’universo industriale ed i suoi territori sono portatori. A loro modo appunto, “terre desolate” di eliottiana memoria.

Osservate a lungo le acqueforti di Pizzanelli. Quasi per un incoerente miracolo pare che la luce (di un sole che non si vede) rifulga piuttosto nei neri sfondati delle sue incantevoli lastre. Mentre nelle chiarità che, per contrasto, si disegnano, si addensa, invece, una astratta malinconia occidua. Così la luce della costa tirrenica, come le palme (insistiti emblemi di questo artista), compongono una coralità a cui la presenza dell’uomo non è fisicamente necessaria (ma si percepisce per una struggente assenza di figure) e solo talvolta compare, ma sempre di spalle. Come pure l’umanissimo mondo di queste acqueforti sceglie per scenari quasi sempre gli esterni en plain air, quasi che i troppi segni che gremiscono ogni interno domestico, fossero insopportabili all’artista con la loro datità pletorica.

All’opposto di ogni informativa narratività, le acqueforti di Pizzanelli, senza ipostatizzare o congelare il reale, ne svelano l’essenza per via di epifanie che hanno per meta, non per strumento, la bellezza senza aggettivi.

 

Pizzanelli: il sogno della realtà

Riccardo Ferrucci per la mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura

Lisbona, 2006

 Avvicinarsi all’opera incisoria di Fabrizio Pizzanelli permette di gettare lo sguardo su un universo poetico ricco e variegato che, partendo dall’osservazione della realtà, di un particolare (un albero, un giardino, un muro, una siepe) conduce alla rielaborazione lirica e poetica della realtà, alla sua trasfigurazione in chiave onirica.

Pizzanelli è un artista che predilige l’osservazione della realtà e che parte da luoghi vicini, della sua Pisa o della Toscana, per dare vita ad una visione interiore, ad una silenziosa e serena contemplazione del mondo. La sua opera incisoria o i suoi disegni raccontano un mondo circoscritto e delimitato, ma che si apre ad orizzonti infiniti ed a viaggi interiori che diventano scoperte di sentimenti ed emozioni nuove. E’ un lavoro artistico che guarda essenzialmente il paesaggio per ritrovare un sentimento umano, per catturare un sogno ad occhi aperti; Pizzanelli propone una raffinata rielaborazione personale sull’immagine in bilico tra metafisica e oggettualità che ricorda per alcuni elementi formali l’opera di autori come Ferroni, Bartolini, Luporini, Pericoli.

Le acqueforti sono un processo artistico accurato e lento di ricostruzione della realtà, il formarsi di una visione che vive di giochi di luce e ombra, di sottili variazioni cromatiche, di rielaborazione di elementi piccoli che assumono un significato più vasto. Ricordava il signor Palomar, di calviniana memoria, che solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a conoscere quel che c’è sotto, ma la superficie delle cose è inesauribile. Anche Pizzanelli ferma il suo sguardo sulla superficie delle cose, della natura e degli oggetti senza andare in profondità, perché la superficie delle cose è inesauribile e conserva mille segreti: la foglia si dirama in mille venature, il muro rivela innumerevoli ferite e lacerazioni, la luce si riflette in mille modi sulla superficie dell’acqua. E’ come se lo sguardo dell’artista riuscisse a cogliere gli infiniti mutamenti di un paesaggio e le sottili variazioni di uno stato d’animo, di un minuscolo particolare ricco di mille sfaccettature. Con Pizzanelli ci troviamo distanti e lontani dalla frenetica civiltà dei media e della televisione che, nel suo consumo onnivoro, rende tutto neutro ed omologato, annullando differenze di valore e di valenza iconica; nel mondo dell’artista toscano si respira un tempo e un sentimento diverso, il tempo si ferma in una sua dinamica silenziosa ed ogni oggetto riassume la sua dignità, a volte vediamo gli oggetti come per la prima volta, come se fossero apparsi dal nulla, come se ci aggirassimo nel mondo con gli occhi chiusi. La forza di questi lavori è proprio nel trovare lo straordinario nel quotidiano, nell’apparizione meravigliosa di luoghi vicini come se fossero mappe e stazioni di un viaggio immaginario.

Il viaggio nell’arte di Pizzanelli è tutto vissuto sotto il segno della leggerezza, quella indicata da Italo Calvino nelle Lezioni Americane: “La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.

Pizzanelli nella pittura compie un’analoga operazione cercando una sua strada verso la leggerezza, togliendo peso alle strutture formali, riducendo i toni cromatici, cercando una pittura dell’essenzialità. E’ una strada verso la lievità ed il sogno, costruendo un personale viaggio che recupera il senso del tempo e della storia aprendosi ad un’assoluta modernità. La sua arte ha la dimensione evocativa della musica, i tempi ed i ritmi sospesi di un canto ed un suono che nasce e muore dalle cose, continuamente modificando gesti e segni. E’ una dimensione circolare quella che propone l’artista nel suo cammino attraverso cicli di opere che si ripetono, inseguendosi e richiamandosi a distanza di anni con sottili e significative variazioni cromatiche e segniche; quasi ad evocare una dimensione enigmatica dell’arte: tutto si riproduce e si ripete, ma tutto cambia e muta ogni volta.

E’ come se le chiome e le foglie degli alberi si guardassero tra di loro, si inseguissero da un disegno all’altro, formando un mosaico di tessere ad incastro diverse e in teoria infinite. La dimensione dell’infinitamente piccolo che diventa però materia per una visione che moltiplica scene e sezioni, segni e grafie, sguardi e luci e ombre. Tutto in questo universo scenico muta e si rinnova come i granelli di sabbia nel deserto che si muovono in fretta, in ogni momento, ma vanno sempre a ricostruire un’immagine finale similare. La realtà è infinita e grande, ma Pizzanelli non si stanca di guardare e disegnare il particolare più piccolo, minuto, cercando di catturare frammenti di verità e sentimenti minimali. E’ un gioco di sottrazione, di leggerezza, di lievità quello portato avanti in questi anni da Pizzanelli che non si stanca di disegnare con le sue matite sulla carta o a incidere i suoi segni sulla lastra di rame per cercare di raccontare un altro aspetto del suo paesaggio interiore, del suo percorso provvisorio sulla terra, della sua piccola visione infinita.

La ricerca e il rigore del lavoro di Pizzanelli, come suggerisce Nicola Micieli, riescono a fare del paesaggio un luogo poetico rivelatorio di un animo aperto su un mondo ancora proponibile come specchio dell’anima. Ancora una volta con Pizzanelli l’arte diventa poesia, non limitandosi a riprodurre la realtà, ma reinventando la realtà in modo onirico e sognante, trasformando la visione di un semplice albero in una meravigliosa mappa dei desideri e dei sogni, in luogo indefinito in bilico tra luce ed ombra, tra bianco e nero.

 

Giovanni Biagioni, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Lisbona 2006

…L’opera grafica di Fabrizio Pizzanelli gode di ben antiche e prestigiose radici. L’artista pisano, pur continuando una tradizione metafisico-oggettistica di artisti italiani contemporanei (Bartolini, Ferroni, Tonelli, ecc.) …svolge ovviamente una propria tematica artistica, cui fa da supporto una tecnica altamente depurata, personalissima e raffinata. La sua poetica si svolge attraverso delicati squarci paesaggistici, offerti con grande lievità di segno (quasi ragnatele di segni minuti), con suggestivi e lievissimi giochi di ombre e luci, dove la natura (alberi, siepi, fiumi, ecc.) si unisce ad opere dell’uomo (muri e costruzioni) in quella perfetta armonia di cui il paesaggio toscano è così stupendamente emblematico. La vera poesia, per me, che son un semplice fruitore d’arte, sta nella grande serenità contemplativa ed emozionale che le opere di Pizzanelli trasmettono, così lontana dalla non esaltante realtà che circonda questa nostra vita di uomini del secondo millennio.

Ecco, è proprio a un bagno di serenità che invitiamo, con questa mostra, il pubblico dell’Istituto Italiano di Cultura, non senza aver ringraziato per la sempre preziosa collaborazione il Festival Sete Sois Sete Luas e i suoi grandi animatori Marco Abbondanza e Renzo Barsotti.