Sandra Lischi

Nel 1981 scrissi un breve testo di presentazione per una mostra di disegni di Fabrizio Pizzanelli alla Galleria dei Giorni (uno spazio che, ricordiamolo, a Pisa in quegli anni ha svolto una funzione importante per la conoscenza e la valorizzazione dell’arte contemporanea). Trentacinque anni fa: è d’obbligo il passato remoto.           

Ravvisavo in quei lontani paesaggi diafani, dai chiaroscuri e dalle ombre che sembrano virare verso un latteo chiarore , riflessioni sulla traccia fotografica che torna al segno grafico. Si trattava infatti di disegni minuziosi a partire da fotografie realizzate dal nonno pittore, Ferruccio Pizzanelli, a Torre del Lago, fra il 1919 e il 1920.Riprese all’aria aperta, in piena luce, con tagli e inquadrature particolari su cui a distanza di tanti decenni Fabrizio Pizzanelli tornava, ricreandole, lavorando per sottrazione, ma anche in modo analitico. “I disegni – scrivevo allora – sembrano restituire alle immagini una fragilità che è quella del tempo che è realmente passato, una lontananza che rende le figure ombre, fantasmi, tracce. E insieme…sintomi di una ricerca teorica e tecnica presente e attuale, anche se intrecciata con la memoria e la storia”.

A ripensarci oggi, nel guardare le opere della attuale mostra di Palazzo Lanfranchi, mi sembra che l’itinerario di questo artista – che è anche un sapiente percorso fra le varie tecniche, come ben evidenziato negli altri testi di questo catalogo – esplori e ci offra proprio una sorta di vertigine o di compressione temporale. Lì si trattava di ripercorrere a ritroso un tempo della riproducibilità (da quella meccanica a quella pazientemente manuale) rendendo moderne, essenziali e asciutte quelle remote fotografie a loro volta finalizzate alla creazione pittorica; ma in tutta l’opera di Pizzanelli, anche successivamente, è in gioco un dialogo col tempo, e non solo il tempo dei modi di rappresentazione. Qualcosa che ha a che vedere con la distanza, che forse è anche la distanza imposta dalle particolari tecniche artistiche scelte.

Dialogo con epoche passate fatte di palme, platani, glicini, cipressi, talvolta racchiusi in tondi o in ovali; forme senza alcuna retorica o enfasi, che si danno come apparizioni lontane eppure sono segnate dall'oggi. Sono paesaggi asciutti e sobri, in cui rami e fili elettrici sono sullo stesso piano, come i rovi e una vecchia costruzione; e in cui panchine deserte abitano piazze composte, ornate da piante che sembrano appartenere ad altre epoche. Come se qualcosa di antico trapelasse già dalle forme cercate e prescelte e lì, nella rappresentazione, venisse insieme fissato e reso vibrante per noi. Un tratto del Lungarno o un angolo della Cattedrale da Via Santa Maria a Pisa, una piazza di Viareggio o il suo sgombro lungomare; uno scorcio a Marina di Pisa; momenti apparentemente inessenziali, dettagli al margine, rare figure umane in movimenti come sospesi. Il tempo si rapprende e si distende e ci lascia, per come lo sguardo lo inquadra e il segno lo dispone, uno spazio di respiro e di pensiero. C’è qualcosa di scientifico, di poetico e di filosofico nell’arte di Fabrizio Pizzanelli; un dubbio, una cura amorosamente minuziosa; e, anche, un silenzio invitante, necessario.

Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”

ETS edizioni, Pisa 2016, stampato in occasione della mostra tenutasi al Museo della Grafica di Pisa